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La proteiforme vitalità del Mito. Su "La forma fluida del mondo" di Sergio Brancato

Circola una vecchia storiella il cui protagonista è un uomo che non ha mai visto il mare e che si trova per la prima volta in vita sua a passeggiare lungo una spiaggia affascinato da ciò che vede: da un lato le onde che si infrangono sulla spiaggia provenendo dal lontano orizzonte, dall’altro una fila di dolci colline su una delle quali è adagiato al sole un grazioso villaggio. Ad un certo punto l’uomo si accorge che il livello del mare sta alzandosi progressivamente. Non sapendo nulla di maree, di fronte a quel fenomeno nuovo per lui, come è nuova la vista del mare, si preoccupa: pensa che il mare continuerà a crescere, fino a raggiungere il paesino. E allora comincia ad arrampicarsi correndo su per la collina, per dare l’allarme agli abitanti del villaggio…

La storia non dice se una volta arrivato lì, verrà compatito, sbeffeggiato, o ricoverato in manicomio, ma è una parabola utile ad illustrare magnificamente l’atteggiamento di chi “apocalittico” o “integrato” che sia, di fronte ai nuovi fenomeni sociali, culturali, estetici, ne trae conseguente definitive e catastrofiche. Come per la “morte dell’arte” che, da quando fu decretata per la prima volta da Georg Wilhelm Friedrich Hegel torna periodicamente a colpire i canali, le forme, i discorsi implicati con la produzione estetica delle varie epoche.
 
In genere vale in particolare per i media: questi vengono al loro emergere disprezzati, poi santificati – poi sacrificati sull’altare della critica accademica e/o di tendenza.
 
Così è stato per il cinema e per il fumetto di fronte all’affermarsi della Tv, poi per quest’ultima nei confronti dei media digitali e della loro vocazione a colonizzare e trasformare l’universo della produzione e della fruizione estetica. Senza riflettere sulla tendenza alla rimediazione, all’ibridazione, alla contaminazione che tutti i mezzi di comunicazione – anche il libro, certo – hanno, e quindi alla loro capacità di trasformarsi ed adeguarsi al mutamento incorporando classicità e innovazioni.
 
Questo atteggiamento di fondo – l’attenzione a guardare oltre l’esistente e il già detto e a lavorare su tutti i materiali, più o meno triviali, più o meno “auratici” – è lo sfondo su cui si sviluppa l’analisi del sociologo napoletano Sergio Brancato, riepilogando alcune considerazioni sul cinema e attualizzandone poi conseguenze e implicazioni al nostro presente e al panorama che oggi ci mostra l’universo dei media.
 
“Il cinema è il luogo dove la modernità si rappresenta”, scrive Brancato nel suo La forma fluida del mondo (p. 123), e il Mito è la dimensione che attraverso il cinema stesso e successivamente i media audiovisivi che lo hanno seguito rimane viva e viene continuamente attualizzata, come è nella sua natura di discorso che dà senso al mondo e alla condizione umana, che tiene viva la memoria collettiva, che prova a neutralizzare la vertigine della morte.
 
È fra questi due poli, in effetti, che si dipana e cortocircuita l’intero discorso dell’immaginario novecentesco: la fusione fra i traguardi della cultura della razionalità applicata e la permanenza del mondo incantato del mito e della fiaba.
 
Il cinema – sin dalle sue origini e seguito dagli altri media audiovisivi –attraverso la messa in scena del corpo degli attori chiama in causa il corpo dello spettatore, ne libera sul piano simbolico le energie e le pulsioni, realizzando non solo uno dei sogni più antichi dell’umanità, quella di replicare la realtà in movimento, bensì ottenendo un risultato che è ancor più profondo e cruciale: “… non di «riprodurre» l’immagine della realtà, ma di «produrre» l’immagine del desiderio” (p. 139), contemporaneamente cercando di “… reperire un piano di mediazione con il problema della morte” (p. 53), e della sua irriducibilità alla dimensione – nuova per l’uomo – della contemporaneità.
Nato come strumento meramente tecnologico, per certi versi autoreferenziale, destinato a mostrare se stesso come esempio delle potenzialità della tecnologia moderna e della perizia dei suoi inventori – i fratelli Lumière, proprietari di una fabbrica di ottiche, declinandola nello spazio/tempo della metropoli e della fabbrica – il cinema si svincola subito da questo impegno per diventare ben altro: la più potente macchina di produzione di immaginario realizzata fino a quel momento dagli uomini.
 
Il cinema abbandona presto la sua prima “vocazione” e intenzione, quella di documentare semplicemente la realtà – retaggio probabilmente della propensione positivista a osservare e classificare, con la presunzione della neutralità, gli eventi e gli oggetti – per trasformarsi in un dispositivo fatto per narrare storie,per rielaborare e restituire racconti.
 
Fa esplodere il desiderio: il luogo cui tende l’intera cultura, e su cui impattano e si infrangono tutti i discorsi estetici sulla condizione umana: l’amore, la morte, il conflitto, l’ordine e il disordine. Evocato nei secoli nella produzione estetica attraverso allusioni, metafore, simboli – ma che solo, forse, nel Novecento e attraverso il cinema e poi gli altri media audiovisivi riesce a dispiegarsi completamente.
 
Perché il cinema può mettere al suo centro il corpo. Quello dell’attore, certo, del divo. Ma anche l’intero corpo sociale con le sue forze, i suoi bisogni, la sua immaginazione, nel momento in cui si fa corpo dello spettatore che completa col suo lavoro quello della produzione. E si addentra nei territori dell’immaginario.
 
La storia dei media audiovisivi si articola intorno ad alcuni assi centrali. I generi narrativi – qualsiasi cosa voglia dire il termine, sempre più usurato; i divi – figure forse tramontate, rispetto all’epoca del cinema classico, ma ancora, almeno alcuni di loro, in grado di fornirci spunti di approfondimento e comprensione degli audiovisivi come processo (un altro dei punti forti della riflessione dl sociologo napoletano, p. 35).
 
Così Marlon Brando e Clint Eastwood vengono scelti come esempi paradigmatici di come due dei corpi/attori più significativi della storia del cinema abbiano saputo seguirne l’evoluzione assecondando i cambiamenti del loro stesso corpo e adeguandoli-adeguandosi alle sue trasformazioni. Il primo sfruttando lo stesso avanzare dell’età per metterlo al servizio della narrazione cinematografica, del linguaggio audiovisivo e costruire personaggi straordinari, come il don Vito Corleone del Padrino (1972)e il Kurtz di Apocalypse Now (1979), due dei capolavori di Francis Ford Coppola. Il secondo, partito come attore Tv, imparando dalla lezione di maestri come Don Siegel e Sergio Leone, e regalandoci anche da regista film straordinari, come Mystic River (2003) o Gran Torino (2008), giusto per citarne un paio…
 
Traversando e cavalcando i generi, tutti e due. I generi, appunto… La fantascienza di film come 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968), vero punto di svolta nel passaggio da produzioni considerate “di serie B” – ma cruciali, come Ultimatum alla Terra di Robert Wise (1958)e L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956)– al grande cinema “d’autore”; o, di seguito, Star Wars (1977) di George Lucas, fino alla pellicola che marca il culmine del cinema “classico” e ne attraversa il crinale per proiettarci nella contemporaneità dell’immaginario tecnologico, Blade Runner (1982) di Ridley Scott.
 
In realtà queste pellicole – un altro esempio è Matrix dei fratelli Wachowski (1999) già ci collocano in una dimensione immaginativa, produttiva e di consumo che prelude alla fusione fra analogico e digitale alla fine dei generi e della separazione fra i media, e dei residui ancora esistenti della cesura fra produzione e consumo: già siamo in luoghi in cui il crossing fra sostanze e forme dell’immaginazione diventa pratica comune.
 
Fino a raggiungere un nuovo culmine con Avatar di James Cameron (2009), discorso quasi definitivo sulla transitabilità da una realtà ad un’altra: la possibilità di trasferire la propria coscienza, il proprio da un corpo umano ad un corpo alieno sulla base della tecnologia raggiunge un ulteriore traguardo rispetto alla interazione con le realtà virtuali o “aumentate”.
 
Qui l’obiettivo è recuperare una dimensione narrativa classica – e totale – in cui l’intero immaginario viene compattato: dal western “dalla parte dei pellerossa” (pensiamo a Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein, 1970), alla trasferibilità delle memorie (come in Strange Days di Kathryn Bigelow, 1995) e delle coscienze (come nel mediocreIl mondo dei replicanti di Jonathan Mostow, 2009), ma anche, in sottofondo, alla dimensione mitica di L’ultima onda di Peter Weir (1977), o ai racconti di Philip José Farmer (che pure Brancato cita) raccolti in Relazioni aliene (1973), o ancora alla serialità di Star Trek. L’ambizioso – e riuscito – tentativo di Cameron è quello di sanare l’altro conflitto fondativo in cui è coinvolta l’umanità: quello fra natura e cultura. Posto che sin dal momento in cui gli uomini (e gli ominidi di qualsiasi pianeta) hanno usato per la prima volta una clava come protesi, hanno smesso l’abito di esseri “naturali” per trasformarsi in esseri “culturali”, nell’alleanza esistente fra i nativi Omaticaya e la dea madre Eywa (l’energia vitale del pianeta Pandora su cui si svolge la vicenda), si realizza la risoluzione della contraddizione fra natura e cultura – l’unica che può permettere di sconfiggere gli umani che sono venuti a portare la logica della conquista, dello sfruttamento, della morte sul pianeta.
 
La tecnologia degli effetti speciali (ma – attenzione: il cinema è di per sé effetto speciale) si fonde qui con le tecnologie narrative del Mito per chiudere il cerchio della storia del racconto e performare l’alleanza di varie coppie di opposti: arcaico e postmoderno, natura e cultura, uomini e alieni, corpo e tecnologia, sacro e secolare…
 
L’altro genere – anzi, “supergenere” (p. 117) – che fa da fuoco del discorso di Brancato è la commedia. Eredità dell’età classica, è uno dei calchi narrativi che ha attraversato tutte le epoche, e che non è riferibile semplicemente alla dimensione del comico in senso stretto (per inciso, uno spazio specifico è dedicato dal sociologo napoletano a Totò, alla sua maschera, alla decostruzione e messa in crisi dello spazio e del discorso spettacolari e mediali da lui operate, pp. 85-94), ma al luogo in cui viene messo in scena il conflitto fondamentale dell’immaginario: quello fra uomo e donna come condensato di desiderio, seduzione, attrazione, mistero, diffidenza, affettività.
Uno dei luoghi in cui oggi si sperimenta la fusione dei generi e dei media, il loro rimediarsi a vicenda, ad esempio in Tv, attraverso fiction seriali come Sex and the City (pp. 165 e segg.). E, aggiungiamo, come Modern Family o Desperate Housewives,o ancora Cougar Town, che prendono atto delle nuove forme in cui si organizzano le relazioni affettive, coniugali, abitative, rivelando forse il riemergere di un bisogno di intimità familiare provocato dall’insicurezza e dal disorientamento del tempo attuale, dall’11 settembre in poi…
 
O, per altri versi, suggeriamo ancora, prodotti seriali come i telefilm Bones e Castle, o, anche se con una curvatura leggermente diversa, Body of Proof, che sul calco del thriller e della detection story disinnescano il tema della morte e della violenza rimandando sottilmente alla sofisticated comedy, rilanciandone i tratti di romanticismo e leggerezza, e mettendo in scena un gioco di seduzione che deve conservarsi irrisolta per salvaguardare un mistero, quello dell’intimità dell’altro, che una volta disvelato rischierebbe di perdere i suoi tratti di ineffabilità e attrattività, recuperando così alcuni dei semi immortali dell’immaginario cinematografico del Novecento.
 
Ecco, forse in queste produzioni di sintesi, che fondono il macabro con il sentimentale e il comico, è una delle chiavi per la comprensione dei processi che a monte riorganizzano il sistema dei media, a valle l’arcipelago dei generi e dei formati, rimescolando e rifertilizzando le forme fluide del Mito e dei media, quelle “sostanze di cui son fatti i sogni”, dei nostri sogni, alla base della grandezza del cinema.

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