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 Home page > Tribuna Libera > La fine di Formigoni e quel che resta della Lombardia

La fine di Formigoni e quel che resta della Lombardia

Milano e la Lombardia non ci sono più; dopo aver sperperato l’eredità del proprio passato, non sono più loro. Abele, la cui radice significa spreco, dovrebbe essere il nome tanto della città quanto della regione. 

Non ci fossero stati i morti sarebbero stati cosa da nulla, rispetto a quel che è accaduto negli ultimi trent’anni, i bombardamenti che spianarono mezza città. Lasciarono rovine, ma di calce e mattoni, che bastò la fatica a spazzare; se ne fece una collina, il Monte Stella, e al posto degli edifici distrutti ne sorsero in fretta altri, più alti e moderni. Non si vedono le rovine di oggi, ma sono ovunque e nessuno sa davvero come levarle di mezzo né come avviare una ricostruzione; neppure si è sicuri che sia rimasto abbastanza legante per tenere assieme una città e una regione che con le virtù civiche dei padri hanno perso la sapienza del fare e la propria anima.

Ha sempre avuto dei begli angoli Milano, ma non è mai stata davvero bella. Non la cantava bella neppure Bonvensin de la Riva, che ne esaltava piuttosto la vitalità espressa da quei numeri, di pani consumati in un giorno, di panni prodotti e quant’altro, citati con tanta fierezza. Non è mai stata neppure amata, Milano, troppo diversa com’era dalla campagna intorno e tanto più grande della altre città del settentrione, se non dai milanesi stretti attorno al loro interminabile duomo. Un campanile come tanti altri italiani, quello rappresentato dalla Madonnina? No, perché milanesi potevano diventarlo tutti, se andavano a vivere in città.

Questo, l’apertura a qualunque forestiero, purché fosse capace di fare il proprio mestiere, è quel che ha fatto di Milano, perlomeno fino a fine anni 80, l’unica vera metropoli italiana; una carattere che trovava riscontro in quello cosmopolita (perlomeno per le consuetudini italiane) della sua borghesia, stato in costante rinnovamento eppure custode di una tradizione amministrativa che anche le dominazioni straniere avevano rispettato. Una borghesia che ha cambiato mestiere negli ultimi decenni, smettendo di essere produttrice e commerciante per farsi speculatrice e finanziera, ma che aveva abbandonato la politica, nei fatti, già quando aveva ceduto alla tentazione fascista e che ha poi preferito non tornare all’impegno, facendosi rappresentare da altri o delegando propri personaggi di secondo piano come Letizia Moratti née Brichetto-Arnaboldi. Che, soprattutto, ha rinunciato ai propri codici, deontologici e comportamentali, per aprire le porte dei propri salotti ed i propri portafogli a personaggi che, per i loro comportamenti, sarebbe stati un tempo tenuti ai margini di quella che si chiamava la buona società.

Se, perso l’appoggio della Lega e, da oggi, quello della direzione nazionale del suo partito, il governatore della Lombardia sembra avere i giorni contati, resta, a dimostrazione di quanto appena detto, che sia rimasto al suo posto fino ad oggi, nonostante sia stato coinvolto in scandali di ogni tipo, e siano una decina i consiglieri regionali (il “mitico” Penati e nove tra leghisti e berlusconiani) indagati per reati che vanno dalla concussione alla bancarotta fraudolenta, senza che il mondo degli affari abbia adoperato la propria influenza, la propria “moral suasion”, per rimuovere un’amministrazione che avrebbe dovuto essere considerata perlomeno imbarazzante.

Dimenticati i propri valori, perso il senso della propria storia, è anzi tutta la società lombarda che sembra ormai disposta ad accettare di tutto. Ha inseguito il sogno leghista, si è cullata nell’illusione di una propria superiorità morale sul resto d’Italia, ma ha dimostrato anche in questi giorni di essere ormai malata quanto quella di ogni altro angolo della penisola. Ci si può forse illudere che Zambetti, il consigliere regionale del PdL che pare abbia comprato i propri voti alla ‘ndrangheta, sia dentro la politica lombarda un caso isolato, vittima delle proprie debolezze caratteriali, ma è cosa stra-nota che una parte dell’imprenditoria della regione non si faccia troppi scrupoli nel fare affari con le mafie, in campi tanto diversi come quello delle costruzioni o dello smaltimento dei rifiuti, magari mentre tanti lavoratori lombardi, dando prova di quella che chiamar miopia mi pare troppo gentile, s’infilano le corna in testa per protestare contro l’immigrato che toglierebbe loro il lavoro.

Ferocia verso gli ultimi arrivati (giunta al culmine quando l’allora sindaco di Milano Moratti propose nientemeno che l’abolizione dell’habeas corpus, nei confronti di chi era sospettato di ospitare clandestini) e incapacità d’opporre la minima resistenza alla penetrazione mafiosa sono due lati di una stessa medaglia; due sintomi di una decadenza tanto profonda da non poter essere nascosta dai nuovi grattacieli né celata dai fumi delle automobili che ancora intasano la tangenziale.

Decadenza che di quella italiane è causa tra le primarie, lì nascono berlusconismo e leghismo, e sintomo tra i più preoccupanti; rovina di una regione e di un paese che alle sfide del mondo post-moderno hanno risposto come fecero ormai novant'anni fa: in modo diverso, vendendosi comunque l'anima.

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