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La favola di Porta Pia s’infrange sui dati della storia

20/09/1870 La storia proibita

"A volte ritornano..." e sono sempre loro, i falsi miti, le storie mistificate, gli eroi finti del nostro Risorgimento. Noi Piemontesi, in fondo, ci siamo pure affezionati, perché ne siamo stati i grandi protagonisti. Furono i nostri Re, i nostri generali, le nostre armate a "fare l’Italia" ed infine coronarono il grande sogno (ma di chi poi?) di Roma capitale, il 20 settembre 1870.

Nei piani misteriosi della Provvidenza i nostri trisnonni framassoni fecero, senza volerlo, un gran favore a Santa Madre Chiesa, liberandola da quel tipo di potere temporale ma, a vedere come andarono i fatti, non c’è proprio nulla di cui essere orgogliosi nella mitica "breccia di Porta Pia", a cui augusti pensieri ancor oggi si levano al suono dell’inno di Mameli.

Di Don Maurizio CERIANI

11 settembre 1870

Era l’11 settembre (da sempre gran brutta data) del 1870, alle cinque del pomeriggio, quando 65.000 soldati piemontesi passano la frontiera tra il Regno d’Italia e quello che resta dello Stato Pontificio.

Dieci anni prima, sempre l’11 settembre, era iniziata l’aggressione alle province pontificie delle Marche e dell’Umbria con l’offensiva di Cialdini su Pesaro. Coincidono volutamente le date e coincidono anche le modalità: aggressione ad uno stato sovrano senza dichiarazione di guerra.

Nessuna guerra è "legale" senza l’atto formale della sua dichiarazione, un documento che denuncia gravi trasgressioni e accuse, che chiede riparazioni e che prevede la soluzione armata qualora non vengano accettate.

L’invasione quindi va dalla storia annoverata tra gli atti di brigantaggio e Vittorio Emanuele II (me ne dispiace assai!) finisce sottobraccio a Saddam Hussein che centovent’anni dopo avanza tra le sabbie del Kuwait. A posteriori si giustificò l’aggressione, motivandola col fatto che gravi disordini erano scoppiati a Roma e nel suo contado per il malcontento della popolazione oppressa dai mercenari papalini.

Peccato però che a Roma fosse tutto tranquillo e che, a parte qualche attentato terroristico ad opera di infiltrati stranieri, in quegli anni la gente continuasse a volere un gran bene e Pio IX e a manifestarglielo in ogni occasione.

Parola di Garibaldi, nel suo "Il governo del monaco" del 1867: tutto il popolo romano, salvo una sparuta minoranza, era clericale! Ci penserà Nino Bixio a fargliela purgare il 20 settembre.

I mercenari papalini

Dai vecchi sussidiari delle elementari in su, l’esercito pontificio è così descritto: mercenari papalini, soldataglia prezzolata arruolata tra la feccia del pianeta, gente che per amor di soldo e saccheggio difendeva il traballante trono di Pio IX e opprimeva il popolo romano, ultimo residuo delle tristi compagnie di ventura del peggior medioevo. Se si guarda con attenzione, si scopre le cose erano all’opposto. Di questi "mercenari", 13.624 per l’esattezza agli ordini del generale Kanzler, 8.300 erano romani e 5.324 volontari stranieri (tra cui una buona parte italiani). Quindi più di un terzo dell’esercito era costituito da sudditi pontifici, volontari pure loro giacché nelle terre del Papa non vi era la coscrizione obbligatoria.

Gli stranieri erano ancor più strani "mercenari", appartenevano per la maggior parte alla nobiltà e alle classi possidenti e si vantavano di militare sotto le insegne pontificie, non solo senza ricevere "soldo alcuno", ma pagando di tasca propria vitto, divisa e armamento.

Eloquente è la vicenda di Giuseppe Sacchetti, fondatore nel 1868 del secondo circolo italiano di Azione Cattolica, quello di Padova, e in seguito grande figura del giornalismo italiano. Dopo aver fatto testamento, parte per Roma nell’agosto del 1870 per arruolarsi nel corpo dei volontari pontifici della riserva; ha venticinque anni. Dalla Città Eterna scrive alla madre tre lettere, rispettivamente il 31 agosto, il 4 e il 24 settembre, dalle quali appare la sua straordinaria fede di giovane disposto al sacrificio supremo per amore di Dio e del Pontefice e, contemporaneamente, ancora sottomesso alla madre, tanto da chiederle il permesso per passare dalla riserva a un corpo attivo e stabile.

La risposta della madre la dice lunga sui sogni della gente italiana su Roma capitale; la donna del Veneto cattolico non ha dubbi e sprona il figlio "a difendere una causa tanto giusta che nobilita l’uomo e lo fa maggiore di sé".

 

Gli squadriglieri di Viterbo

 
La provincia di Viterbo da sola fornì all’esercito di Pio IX 2.000 volontari, che organizzati e guidati dal colonnello Azzanesi, un veterano di Castelfidardo, formarono il corpo degli squadriglieri pontifici.

Erano compagnie di contadini, vestiti col loro costume tradizionale, ben addestrati alla guerriglia, perfetti conoscitori del territorio, armati di tutto punto e ben inquadrati; avevano ripulito le province meridionali del Patrimonio di San Pietro dal brigantaggio e soprattutto avevano dato filo da torcere ai diversi tentativi di infiltrazioni garibaldine del decennio 1860-1870.

Azzanesi avrebbe voluto impegnare con i suoi uomini, in un’estenuante guerriglia, l’esercito che, superato il Garigliano, avanzava verso Roma da sud al comando del generale Angioletti, ma Pio IX era stato tassativo: non voleva spargimenti di sangue, ma solo la chiara dimostrazione per il mondo che il Papa cedeva solo davanti alla violenza dell’invasione di un esercito nazionale.

Tra il 12 e il 16 settembre, gli squadriglieri si ritirarono così senza combattere, accolti e aiutati ovunque dalle popolazioni fedeli al Papa-Re, mentre l’esercito piemontese entrava in Viterbo "liberata" acclamato da una folla di dodici "patrioti".


Le mura di Roma


A parte la battaglia di Civita Castellana, dove 3.400 piemontesi, ebbero la meglio sulla disperata resistenza dei 110 zuavi del capitano De Rèsimont, dopo aver cannoneggiato per una mattina il vecchio castello con una pioggia di duecentoquaranta proiettili da 18 bocche da fuoco (i difensori avevano solo i fucili), Cadorna giunse sotto le mura di Roma senza colpo ferire e il 15 settembre pose la città sotto assedio. A parte Trastevere, col suo terreno dominante, Castel Sant’Angelo e le mura bastionate della Città Leonina, nessun’altra zona di Roma poteva pensare ad una difesa prolungata.

La Città era infatti cinta, più che difesa, da Porta del Popolo al Testaccio, da un lungo muro, che per lunghi tratti era ancora quello edificato dall’imperatore Aureliano 1.500 anni prima, senza alcuna piattaforma per posizionare l’artiglieria. Le mura, pensate per difendere Roma in epoche ormai lontane e con altri criteri d’assedio, erano troppo alte per piazzarvi i fucilieri e in alcuni punti così poco spesse per opporre resistenza all’artiglieria.

La breccia di Porta Pia venne aperta in un tratto dove le fortificazioni avevano meno di un metro di spessore.

Il 16 settembre Pio IX, alle cinque del pomeriggio, uscì per l’ultima volta dal palazzo apostolico per recarsi a pregare nella chiesa dell’Aracoeli: una folla immensa lo acclamò ovunque, mentre volontari romani accorrevano sulle mura della Città Leonina per unirsi agli Svizzeri nella difesa della persona del Papa.

La giornata del 19 vide alcune scaramucce attorno alle mura e niente più.

Dopo avere inviato a Kanzler alcuni inviti alla resa, puntualmente respinti, il generale Cadorna aveva deciso di sferrare l’attacco all’alba del giorno successivo per porre fine a quella che diceva essere "la dominazione di truppe straniere che imponevano la loro volontà al Papa e ai Romani".



Nino Bixio "uomo d’onore"

La notte tra il 19 e il 20 settembre passò insonne entro le mura di Roma.

I soldati del Papa si confessarono tutti e ricevettero il viatico e l’unzione.

Erano convinti di morire uno ad uno nella difesa, casa per casa, della Città Santa. La croce rossa fu appuntata sul petto di quegli ultimi crociati e risuonò per le mura il grido di "W Pio IX, W il Papa-Re".

Cadorna aveva pianificato di attaccare Roma lungo tutto il perimetro delle mura, ad eccezione di quelle della Città Leonina, aprire diverse brecce e penetrare in città da più parti per spezzare la difesa degli zuavi. Alle cinque del mattino i cento cannoni italiani aprirono il fuoco martellando le difese.

Sull’altra sponda del Tevere il generale Nino Bixio, eroe dell’impresa dei Mille, aveva posto il suo quartier generale a Villa Pamphili e aveva l’ordine di attaccare Porta San Pancrazio e le mura fortificate di Trastevere. Sicuro che il popoloso quartiere sarebbe insorto e gli avrebbe aperto le porte e informato che il settore era difeso solo da truppe indigene, Bixio aveva inviato emissari per invitare alla diserzione i difensori di Trastevere; pensava che sarebbe toccata a lui la gloria di entrare per primo in Roma "liberata".

Per questo tardò l’ordine di aprire il fuoco di circa un’ora. Non sapeva però che solo tre giorni prima una delegazione di Trastevere era salita dal Pontefice per offrire l’intera popolazione del quartiere come guardia personale di quello che consideravano "il loro Papa".

Iniziato l’attacco, si avvide presto che la resistenza a Trastevere era più decisa che negli altri settori: le mura solide non cedevano, gli abitanti del quartiere erano saliti a difenderle e le sue truppe si trovavano ora tra il tiro incrociato delle mura leonine e di quelle trasteverine. Irritato, tra le otto e le nove, fece dirigere il fuoco di alcuni cannoni sugli edifici all’interno delle mura, devastando case, conventi e ospedali e facendo vittime tra i civili.

Poco prima delle dieci, quando le artiglierie italiane avevano aperto una larga breccia nelle mura di Porta Pia e si stava preparando l’assalto, giunse alla porta un dragone a cavallo con l’ordine di resa da parte di Pio IX: il Papa non voleva uno spargimento di sangue.

Alle dieci e dieci minuti la battaglia per Roma era finita.

Anche sulle mura di Trastevere venne issata la bandiera bianca, ma le batterie di Nino Bixio continuarono a bombardare il quartiere ancora per mezz’ora.

Anche dieci anni prima, ad Ancona, i cannoni di Cialdini e Fanti avevano continuato a sparare per molte ore sulla città, rea di essersi arresa all’ammiraglio Persano.
 

La gioia dei Romani liberati
 

I Romani si chiusero in casa e sbarrarono porte e finestre, appendendo drappi neri alle finestre in segno di lutto. Alcuni portoni di case nobiliari non riaprirono i loro battenti che nel 1929, all’indomani della "Conciliazione".

Cinquemila facinorosi, autoproclamatisi "esuli romani", erano al seguito dell’esercito ed entrarono subito in città, inneggiando a Vittorio Emanuele e all’unità d’Italia, mentre nel pomeriggio treni speciali portarono a Roma nuova gente a far gazzarra, al punto che "La Nazione", giornale liberale di Firenze, poté scrivere: "Roma è stata consegnata come res nullius a tutti i promotori di disordini e di agitazioni, a tutti gli approfittatori politici di professione, a coloro che amano pescare nel torbido, ai bighelloni di cento città italiane. Si potrebbe pensare che il governo voglia fare di Roma il ricettacolo della feccia di tutta Italia". I disordini continuarono per giorni in Roma finalmente "liberata".

tratto da: Il Popolo, (settimanale della diocesi di Tortona), 6.10.2005

 
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Ricevo e posto da Centro studi Giuseppe Federici:
 

I caduti pontifici

Pubblichiamo l’elenco dei diciannove caduti dell’Esercito Pontificio deceduti il 20 settembre 1870 e nei giorni successivi in seguito alle ferite:

ZuaviSergente Duchet Emilio, francese, di anni 24, deceduto il 1 ottobre.

Sergente Lasserre Gustavo, francese, di anni 25, deceduto il 5 ottobre.

Soldato de l’Estourbeillon, di anni 28, deceduto il 23 settembre.

Soldato Iorand Giovanni Battista, deceduto il 20 settembre.

Soldato Burel Andrea, francese di Marsiglia, di anni 25, deceduto il 27 settembre.

Soldato Soenens Enrico, belga, di anni 34, deceduto il 2 ottobre.

Soldato Yorg Giovanni, olandese, di anni 18, deceduto il 27 settembre.

Soldato De Giry (non si hanno altri dati).

altri tre soldati non identificati, deceduti il 20 settembre.

Carabinieri:

Soldato Natele Giovanni, svizzero, di anni 30, deceduto il 15 ottobre.

Soldato Wolf Giorgio, bavarese, di anni 27, deceduto il 28 ottobre.

Dragoni:

Tenente Piccadori Alessandro, di Rieti, di anni 23, deceduto il 20 ottobre.

Artiglieria:

Maresciallo Caporilli Enrico, italiano, deceduto il 20 ottobre.

Soldato Betti, italiano, deceduto il 20 settembre.

Soldato Curtini Nazzareno, italiano, deceduto il 20 settembre.

Soldato Taliani Mariano, di Cingoli, di anni 29, deceduto il 20 settembre.

Soldato Valenti Giuseppe, di Ferentino, di anni 22, deceduto il 3 ottobre.

L’erosimo di Alessandro Piccadori, tenente dei Dragoni Pontifici

… Alessandro Piccadori, reatino di 24 anni, aveva ricevuto pochi minuti fa l’ordine di recarsi da Porta San Giovanni, dove si trovava a difendere le postazioni pontificie, al vicino convento di padri passionisti presso la Scala Santa per telegrafare al ministero delle Armi le ultime novità della battaglia.

Giunto davanti all’edificio, il dragone ha trovato una piccola folla composta di impiegati e religiosi che erano scesi in strada per cercare un posto dove ripararsi: da qualche minuto infatti la batteria italiana ha preso di mira la zona tra il palazzo Lateranense e la scala Santa. Sconsigliato dai passionisti e dai militari a entrare nel palazzo, il giovane è salito di corsa nella sala della biblioteca dove si trova il telegrafo quasi inseguito da due frati, padre Angelino e fratel Paolo Giacinto: i quali, di fronte a tanto ardimento, non se la sono evidentemente sentita di lasciare solo il valoroso dragone.

Ma, appena il tenente è entrato nella biblioteca e ha raggiunto l’apparecchio trasmittente, una granata è piombata nella stanza e scoppiando una scheggia lo ha colpito al capo uccidendolo all’istante, un frammento ha ferito al braccio con una profonda lesione anche fratel Paolo Giacinto.

Padre Angelino, rimasto incolume, pur terrorizzato nella stanza piena di fumo e imbrattata di sangue, mentre il correligioso chiudeva aiuto torcendosi dal dolore, ha potuto impartire l’estrema unzione all’ufficiale pontificio.

(Antonio Di Pierro, L’ultimo giorno del Papa Re, pagg. 133-134, Mondadori 2007)

 

Un fiore sulle tombe dei caduti pontifici


I corpi degli ufficiali e dei soldati pontifici caduti durante le diverse battaglie (Castelfidardo 1860, Agro Romano 1867, difesa di Roma 1870) furono sepolti nelle città e nelle nazioni di provenienza, tranne alcune eccezioni che segnaliamo.

I dati sono stati raccolti da L’Avant-Garde, bollettino dei Discendenti degli Zuavi Pontifici, nn. dal 1997 al 2002.

Il gen. Hermann Kanzler (del Baden-Württemberg, 28/3/1822 - Roma 5/1/1888), Comandante in capo delle truppe pontificie e Pro-Ministro delle Armi, dopo il 20 settembre volle rimanere a Roma. E’ sepolto in una cappella al Cimitero del Verano (la prima della fila sotto la Rupe Caracciolo, dietro la chiesa del cimitero), insieme alla moglie Laura dei Conti Vannutelli e al figlio, Rodolfo, importante archeologo. Accanto vi è una cappella con la tomba di Madame de Charette, moglie di Athanase de Charette, comandante degli Zuavi.

Nelle immediate vicinanze vi sono delle tombe di alcuni militari (tutti francesi):


- Paul Saucet, sergente degli Zuavi, nato il 16/11/1842, morì di malattia a Roma il 22/11/1861; partecipò alla battaglia di Castelfidardo, dove salvò la vita al suo capitano, Athanase de Charette.


- Zuavo Achille de Bligny, nato 11/6/1826, si arruolò il 21/2/1861, morì all’ospedale militare di Marino il 27/8/1861; una magnifica scultura raffigurante uno zuavo sovrasta la sua tomba.


- Zuavo Henri Foucault des Bigottières, 9/4/1827, si arruolò il 30/9/1867, fu assassinato un mese dopo a pugnalate da un sicario garibaldino il 25/10/1867 a Trastevere.


- Adéodat e Emmanuel Dufournel. Adèodat, nato il 18/8/1838, si arruolò nel 1860. Capitano degli Zuavi, partecipò alla battaglia di Castelfidardo e alla campagna militare del 1867. Morì il 5/11/1867 in seguito alle ferite riportate. Emmanuel, nato il 22/2/1840, si arruolò col fratello nel 1860. Sottotenente degli Zuavi, morì il 20/10/1867 a Valentino, in seguito alle ferite riportate il giorno precedente nella battaglia di Farnese.

Tutte queste tombe si trovano nel più totale abbandono, vergognosamente dimenticate dal Vaticano.

L’anno scorso, per il 140° anniversario della vittoria di Mentana, sono state – per quanto possibile – ripulite da alcuni fedeli romani dell’Istituto Mater Boni Consilii.

Delle tombe di soldati papalini si trovano anche in altre cittadine laziali, dove si svolsero le battaglie del 1867.

Pubblichiamo (senza possibilità di verifica) l’elenco riportato da L’Avant-Garde Agnani: nella chiesa di Sant’Antonio.Albano: nel cimitero.Ceprano: nella chiesa cattedrale.Frascati: nella cattedrale e nel cimitero.Marino: nella cripta della cattedrale.Monterotondo: al cimitero.

Il Comune a fine ‘800 ha posto una lapide con la scritta: “i mercenari del Papa”. L’anno scorso la direzione del cimitero ha rifiutato un nostro progetto per cambiare la lapide (mercenari della democrazia?).Palombara: nella chiesa dei Cappuccini.Piverno: nel cimitero.Prossedi: nella chiesa collegiata di sant’Agata.Sezze: nel convento (di san Francesco?).Subiaco: nel cimitero.Velletri: nella chiesa di santa Lucia.Veroli: nella chiesa santa Maria Salomè.Viterbo: nel cimitero di san Lazzaro.

Invitiamo a portare un fiore sulle tombe di coloro che morirono per difendere Pio IX e la Santa Sede dall’aggressione voluta e realizzata dalla setta massonica.

Una delegazione del Centro studi Federici domenica 21 settembre 2008 porterà un omaggio floreale alla tomba del gen. Kanzler e al monumento ai soldati papalini voluto da Pio IX al Verano (al Pincetto).

La vecchia Roma dei Papi Lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius, che per quasi vent’anni visse a Roma, seppur razionalista e protestante e autore di opere dove espresse molte critiche al papato, dopo il 20 settembre scrisse:“Roma è diventata una tomba imbiancata. Vengono ricoperte di bianco le case, persino i dignitosi palazzi antichi, si gratta via la ruggine dei secoli. I conventi vengono tramutati in uffici. Dopo secoli il sole e l’aria penetrano di nuovo in queste clausure di frati e di monache. I frati che ancora vi risiedono ne vengono stanati come i tassi. Fa pena vederli vagare, come spiriti, nelle loro camerette, nei chiostri e nei corridoi. La vecchia Roma sta tramontando. Vi sarà qui un mondo nuovo. Io però sono felice di essere vissuto per tanto tempo nella vecchia Roma”.

(Antonio Di Pierro, L’ultimo giorno del Papa Re, pag. 292, Mondadori 2007)

Commenti all'articolo

  • Di Maria Cipriano (---.---.---.37) 29 ottobre 2015 23:40
    Maria Cipriano
    Ma le stupidaggini vi vengono in mente spontaneamente o c’è qualcuno che ve le suggerisce? A che serve guardare i comici quando ci sono articoli si storia (si fa per dire) che fanno sbellicare dalle risa?
    Cataste di fiori dovremmo portare a chi ci ha liberato dal papato, e, purtroppo, evidentemente, non c’è riuscito, sennò non leggeremmo nel XXI° secolo simili strafalcioni da far accapponare la pelle.
    La città di Roma si segnalò per i suoi travolgenti festeggiamenti, al punto che le novelle autorità del Regno d’Italia dovettero fare affiggere degli avvisi in cui pregavano la cittadinanza di tornare alla vita normale.
    In quanto ai nobili papalini,alcuni fecero un pò di scena, ma mi risulta che un certo principe Pallavicini fosse nella Giunta Comunale, che un certo principe Ruspoli divenne ben presto sindaco della città, e che gli succedette un altro principe, Prospero Colonna, che baciò solennemente il Tricolore in Campidoglio accanto a Gabriele D’Annunzio che snudava la spada di Nino Bixio, nei giorni frementi della dichiarazione di guerra all’Austria.
    Il governo del Regno d’Italia, nell’intento di evitare l’ennesima guerra risorgimentale, per anni aveva condotto estenuanti trattative con il papa, ma aveva a che fare con fanatici e invasati, come il superbo ministro francese Eugene Rouher secondo il quale "l’Italia può fare a meno di Roma. Noi dichiariamo che non s’impadronirà mai di questa città! ", e con una bigotta incallita qual’era la moglie spagnola di Napoleone III, il quale invano elemosinò gli aiuti militari dall’Italia per le sue guerre contro la Prussia. Non li ricevette, e fu miseramente sconfitto a Sedan.
    La città di Roma parla da sola, giacchè fu praticamente edificata e rimessa a nuovo dal Regno d’Italia, che da un misero borgo di pastori pieno di catapecchie, punteggiato qua e là di palazzi edificati per il papa e i suoi amici, la trasformò in una capitale europea perlomeno decente.
    L’abissale ignoranza, vera o finta che sia, di questo articolo, mi costringe a precisare che la "presa di Roma" fu condotta con mille cautele, e i comandanti militari ricevettero ordini sverissimi di far sì che nessuna insurrezione scoppiasse, in quanto non si voleva gettare benzina sul fuoco, ma al contrario sbrigare la faccenda nel modo più indolore possibile per rispetto al papa. E così fu.
    Maria Cipriano

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