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Referendum leghista sull’autonomia: una pistola puntata contro il Sud

Lombardia e Veneto celebreranno il 22 ottobre prossimo due referendum consultivi per chiedere maggiore autonomia regionale. Li hanno indetti a braccetto due presidenti di Regione leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia, con il sostegno di tutto il centrodestra, ma anche il voto decisivo del Movimento 5 Stelle, che sostiene l’iniziativa anche in un recentissimo post di Grillo. L'idea è quella di sfruttare l'articolo 116 della Costituzione per spingere il Governo a trattare la cessione di maggiori materie di competenza alle due Regioni.



Nell’ultimo periodo anche parecchi sindaci lombardi del PD si sono aggiunti ai sostenitori dell’iniziativa, così come negli ultimi giorni il Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini , escludendo però il passaggio referendario.

Interessante rimarcare come prima in Veneto, poi in Lombardia si è saldata un'alleanza necessaria con il M5s per far passare i due provvedimenti nei rispettivi Consigli regionali, dov'era necessaria una maggioranza dei due terzi. I leghisti hanno tenuto i quesiti nel cassetto fino a un tempo per loro propizio. L'anno pre-elettorale del 2017. Una farsa, secondo alcuni dirigenti Dem, come il citato Bonaccini, che si sono invece poi ritrovati a rincorrere Maroni e Zaia una volta annunciata la data della consultazione per il 22 ottobre, anche perché essere contro la richiesta di maggior autonomia fiscale, che è nel Dna di molti cittadini ed imprenditori, potrebbe far pagare al Pd un prezzo alto in vista delle prossime elezioni politiche, forse ancora più alto di quello delle ultime Comunali. Un piano ben strutturato e di lungo periodo quello leghista, che parte da lontano con il “frutto avvelenato” della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001.

Nella forma, i due quesiti referendari sono però formulati in maniera diversa. Essenziale, quello del Veneto: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?". Più circostanziato, il quesito che gli elettori lombardi troveranno sulla loro scheda elettronica: "Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?".

E se il testo del referendum veneto si limita al virgolettato sopra riportato, quello lombardo, pur ripetendo la stessa identica frase, la inserisce in un contesto che rende il testo più cauto ed elaborato ma in fin dei conti ancor meno chiaro. Insomma, autonomisti nei proclami ma prudenti nella forma, forse per paura di risvegliare l’elettorato di sinistra (o la Corte costituzionale).

Il quesito mescola due questioni, come recentemente analizzato dall’economista Gianfranco Viesti sulla rivista “Il Mulino”. La prima è l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle regioni. All’articolo 116 della Costituzione si prevede che con legge dello Stato possano essere attribuite alle regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», rispetto alla vasta lista delle materie a legislazione concorrente (terzo comma dell’articolo 117), e all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

D’altra parte l’articolo 116 prevede già che le regioni possano prendere l’iniziativa per richiedere maggiori dosi di autonomia, sentiti gli enti locali, senza alcun bisogno di referendum e dei relativi costi (dai 20 ai 50 Milioni di € secondo alcune stime). Strada questa che sembra voglia percorrere il Presidente Bonaccini per l’Emilia-Romagna .
L’iniziativa non precisa le materie sui cui si vuole maggiore autonomia, non nasce dall’individuazione di specifici temi su cui si ritiene sarebbe più opportuna una competenza regionale, ma il vero obiettivo sono le risorse finanziarie che si vogliono trattenere, detto che se si volesse trattenerle tutte si dovrebbe chiaramente parlare di secessione.

La maggiore autonomia, infatti, è “a beneficio esclusivo del grande popolo lombardo che si vedrebbe così sgravato, grazie all’autonomia fiscale, di ampie porzioni di fiscalità regionale e godrebbe di uno spettro maggiore di servizi e di un’assistenza rafforzata”. Ma non finisce qui: perché il presidente della Regione Lombardia Maroni è impegnato a convocare un tavolo, dopo lo svolgimento del referendum, composto da tutte quelle regioni che vantano un credito annuale nei confronti dello Stato centrale, per costituire un “Fronte del residuo fiscale”, “applicando il sacrosanto principio, ormai non più trascurabile, che le risorse rimangano nei territori che le hanno generate”.

Se vinceranno i Sì, (come probabile, chi mai non vorrebbe più autonomia fiscale in Italia?!) alle due Regioni non saranno attribuite di diritto maggiori forme di autonomia. La trattativa che potrebbe seguire i due referendum, come detto, sarebbe già possibile ora proprio sulla base dell'articolo 116 della Costituzione: è quello che inizialmente il centrosinistra aveva ricordato a Maroni e Zaia, i quali però hanno sostenuto di non essere mai stati ascoltati dai Governi in carica ( evidentemente compresi quelli del centrodestra che li hanno visti anche ministri).

La norma infatti stabilisce che la singola Regione interessata, sentiti gli enti locali, può chiedere di avere maggiori materie di competenza fra quelle elencate nel successivo articolo 117 in materia di organizzazione della giustizia di pace, ambiente, istruzione, oltre che fra quelle attualmente concorrenti con lo Stato, per un totale di 26 materie, come per esempio il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Una volta firmata, l'intesa fra Stato e Regione deve essere ratificata con una legge, che per essere approvata deve ottenere il voto della maggioranza assoluta dei componenti (non bastano i presenti) delle due Camere. Un iter non scontato e lungo.

Il punto da cui nasce la necessità per i leghisti dell’iniziativa è in quel piccolo inciso all’interno del quesito: «con le relative risorse».

Il vero obiettivo è quindi ottenere maggiori risorse pubbliche rispetto alla situazione attuale e alle Regioni “non virtuose” ed il referendum serve solo come arma di pressione sul Parlamento, nel caso questa richiesta fosse sostenuta da un forte mandato popolare (necessario un dato superiore almeno ai 5 milioni di cittadini nella sola Lombardia, a detta dei promotori). Così come avvenne in UK nel caso della Brexit. 

Si dice: per trattenere sul suolo regionale una maggiore quota delle tasse pagate dai cittadini.


Ma le regole della tassazione e dell’allocazione della spesa nel nostro paese sono stabilite dai grandi principi costituzionali: ad esempio, la progressività della tassazione e l’istruzione obbligatoria e gratuita. Il «residuo fiscale» è semplicemente l’esito, in Italia come in tutti gli altri paesi civili, dell’applicazione delle norme costituzionali in presenza di differenze territoriali nei redditi, utile quindi per il principio di solidarietà redistributiva.

Il tentativo del referendum, dietro le richieste di maggiore autonomia, è quindi semplicemente quello di ottenere dallo Stato l’allocazione, in via preventiva, di maggiori risorse, ovviamente sottraendole a tutti gli altri cittadini italiani. È una evidente scelta politica che si colloca nella tradizione egoistica leghista. Tratteniamo per noi più soldi, gli altri, in primis i meridionali, prima spremuti e poi fatti passare, grazie anche alla compiacenza dei media, per spreconi, si arrangino.

Una deriva assai pericolosa, con una destra rampante, troppo spesso appiattita sui diktat leghisti, che dopo le elezioni politiche potrebbe trovarsi al governo del Paese e da lì sostenere l’iniziativa con degli effetti del tutto imprevedibili, visto che mira a scardinare gli assetti costituzionali su cui è basato il nostro Paese e a imporre l’egoismo territoriale dei più ricchi.

In altre parole le Regioni “povere”, dovranno arrangiarsi con quel poco che passerà il convento romano (a cui sempre bisognerà obbligatoriamente rivolgersi dato il residuo negativo) e cioè ancora meno di oggi visto che verranno a mancare risorse, mentre le Regioni “ricche" potranno mantenere poteri, trattenere risorse e gestirsi autonomamente.

Utile rimarcare come le Regioni del Sud non solo siano state messe in condizioni di squilibrio anche grazie alle politiche nazionali che da sempre privilegiano il Nord, ma siano in difficoltà a raggiungere l’utile anche per motivi tecnici. Basta ricordare ad esempio il caso emblematico dello spostamento della sede legale di Alenia, qualche anno fa, dalla Campania alla Lombardia. Spostare una sede legale comporta significative conseguenze fiscali, a cominciare dall’Iva, che è tassa pagata dal consumatore finale direttamente allo Stato ma che successivamente viene girata per circa il 40% – 45% del suo valore alla Regione del produttore.

E'un caso fra i tanti che seguono le acquisizioni di aziende del Sud da parte di imprenditori con sede legale a Nord, per non parlare poi di chi produce ed inquina nel Mezzogiorno per arricchire Regioni del Nord, come visto sopra, grazie anche al solito ricatto occupazionale "o salute o lavoro" (Ilva, Basilicata...).

Inoltre il Sud, terra di consumatori è penalizzato verso il nord, terra di produttori. Basta guardare le statistiche per vedere che nel solo 2008, nel confronto tra la Lombardia e la Campania, i produttori residenti in Lombardia hanno venduto beni in Campania che hanno sommato un’IVA di circa 20-25 miliardi di euro. Al contrario i produttori residenti in Campania hanno venduto in Lombardia beni che hanno sommato un’IVA di circa 2 miliardi di euro. La differenze tra queste due cifre è andata allo Stato centrale e successivamente è stata trasferita per il 40-45% alla Regione di residenza dei produttori. Come a dire: nel 2008 i campani hanno finanziato in contanti e per circa 10-12 miliardi di euro la regione Lombardia. E questo è solo un anno fra tanti, riferito ad una sola Regione del Sud, la Campania...

In altre parole si vedrà sancita una differenziazione di opportunità fra territori nella stessa nazione, alla faccia della proclamata uguaglianza costituzionale che, seppur da sempre solo sulla carta, al momento ci permette ancora di rivendicare legittimamente uguali diritti e uguali servizi.

E’ un piano che parte da lontano e che si interseca perfettamente in decenni di politiche pubbliche che hanno incremento uno scarto nel Paese fra Sud e Centro-Nord, come nel caso della disparità di investimenti spesa in opere pubbliche (come da tabella SVIMEZ) che si acuisce a partire dai primi anni novanta, cioè dalle prime affermazioni elettorali della lega nord, riducendosi sempre più fino ad arrivare agli attuali minimi storici. Al nord invece l'intervento è rimasto inalterato o è aumentato. Scarto di investimenti che ora forse permetterà appunto di concorrere a togliere legalmente diritti ad alcuni per dare privilegi ad altri. A questi mancati investimenti statali al Sud si sono poi ultimamente sommate le politiche di austerità europea, che non a caso hanno impoverito tutti i Mezzogiorno d’Europa (come da tabella Eurostat in allegato e come argomentato nel corso della conferenza stampa alla Camera del 27 Luglio scorso insieme a Pippo Civati). A questo quadro desolante si aggiunga che il governo sottrae da anni al Sud una notevole quota dei fondi di coesione, destinandoli poi al nord, fondi destinati originariamente alla costruzione di infrastrutture nel Sud.



Occorrerebbe a questo punto, come da Rapporto SVIMEZ 2010, la creazione di una Macroregione Sud raggiungendo fra le Regioni del Sud tutte le intese necessarie, ai sensi dell'articolo 117, ottavo comma, della Costituzione, per l'esercizio unitario, anche attraverso l'istituzione di organi comuni, delle funzioni di propria competenza. Seguita dal centralizzare la gestione dei Fondi, ritornando ad un piano del Mezzogiorno e ad una Agenzia destinata a dirigere e a gestire progetti strategici: acque, rifiuti, difesa del suolo, infrastrutture strategiche ecc. 

In Calabria è in preparazione un referendum in tal senso, proposto dallo stesso centrodestra, anche in funzione evidente di non perdere consensi al Sud, ma a questo punto è una proposta giocata solo in difesa e tutta da definirsi nei tempi (comunque giudicata impossibile dall'On Gianluca Pini della Lega Nord, in una intervista sul QN Nazionale del 22 Agosto in riferimento all'ottenimento dell'autonomia basandosi sull'applicazione dei relativi articoli della Costituzione). D’altra parte la proposta della Macroregione, proprio basata sulla proposta Svimez era, in tempi non sospetti e giocando in attacco (anticipando cioè la propaganda leghista), fra i punti di programma che il Partito del Sud ha concretamente proposto a Michele Emiliano in occasione delle ultime elezioni regionali pugliesi 2015 e che Emiliano ha accettato inserendoli nel suo programma di governo regionale. Dettoapplicare il riparto che ovviamente serve, come visto, un accordo fra tutte le Regioni e detto che una collaborazione fra diverse Regioni del Sud si è andato a concretizzare pochi mesi dopo l'elezione, soprattutto in occasione del referendum di aprile 2016 contro le trivelle.

In definitiva il Sud può uscire da questa stagione referendaria leghista con le ossa rotte, non solo definitivamente indicato al pubblico ludibrio, soprattutto dai media, quale cicala responsabile del proprio stato, ma soprattutto definitivamente marginalizzato, per non dire segregato.

Da rimarcare che inefficienze di sistema, politici e politiche inefficienti al Sud ci sono e sono da combattere, non si afferma il contrario, ma ci sono in egual misura anche al Centro-Nord, dove tanti scandali finanziari e non solo si susseguono da decenni. Ad esempio quello recentissimo delle banche, le cui conseguenze e i cui costi sono però ripartiti anche sui contribuenti del Sud, mentre per il Banco di Napoli a suo tempo si agì in modo differente, o meglio consegnando, per problematiche molto inferiori, l’ultima grande Banca del Sud nelle mani del San Paolo di Torino. In poche parole nessuna preclusione verso l'idea di autonomia, anzi ben venga per tutti, ma partendo da pari opportunità.Oggi invece "il gioco" a cui ci vogliono far partecipare è truccato alla radice e va combattuto. C'è chi in questi ultimi decenni ha goduto di tutte le opportunità, pagate da tutti, ed ora si vuole sfilare col "bottino". Per prevenire ogni forma di egoismo territoriale, basterebbe semplicemente applicare il riparto del versamento dell’IVA in base alla sede territoriale della singola unità produttiva in cui la vendita è stata effettuata e non più in base alla sede legale dell’azienda produttrice, anche vincolando tutti i soldi così ottenuti in spesa in opere pubbliche per il Mezzogiorno tramite il governo nazionale. Nei fatti invece il ventennio leghista si concluderebbe così con un “delitto perfetto” contro il Sud.

Inutile sottolineare cosa questo comporterebbe per il nostro futuro, con il Sud che già attualmente vede la metà della popolazione in povertà relativa e con una disoccupazione oltre il 30% (quella giovanile oltre il 50%) si possono facilmente prevedere scenari catastrofici, anche per la stessa tenuta democratica del Paese, se non ci si opporrà subito nelle opportune sedi a questa pericolosa deriva.
 

Un referendum consultivo contro il quale è opportuno esprimersi in modo chiaro, anche sotto forma di invito all’astensione, da parte di chi ha a cuore le sorti del Sud e da parte di tutta la sinistra, visto che mira anche nei fatti a formalizzare la creazione di cittadini con opportunità e servizi di serie A e di serie B, il che è semplicemente inaccettabile!

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