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La cura delle primarie per una democrazia malata di "leaderismo"

La crisi della nostra democrazia precede, anche cronologicamente, quella della nostra economia di cui è causa non secondaria. Tracciarne la storia, comprenderne le ragioni e cercare di porvi rimedio non è un dunque un esercizio futile, un lusso per un paese sull'orlo del collasso, ma una pre-condizione per sperare di riemergere dalla palude in cui ci siamo ficcati.

Se tanti italiani non si sono mai sentiti davvero cittadini, per cause sociali, storiche e culturali, è solo dalla fine degli anni '70 o dai primissimi anni '80 che i partititi hanno smesso di adempiere alla propria funzione di cinghia di trasmissione tra la società e la classe politica; è solo allora che hanno iniziato quella parabola discendente che ha portato alla loro scomparsa. Una data valida, per l'inizio della fine potrebbe essere il 1978, anno in cui Bettino Craxi fu eletto segretario del PSI.

In poco tempo Bettino Craxi, con il suo indubbio carisma e i suoi pochi scrupoli arrivò a farsi padrone assoluto del partito socialista. Non solo, agli occhi degli elettori, il partito più antico del nostro parlamento arrivò ad identificarsi completamente con il suo nuovo segretario; essere socialisti divenne innanzitutto essere craxiani. Si trattava di un fenomeno affatto nuovo (Berlinguer, per quanto amatissimo, non è mai arrivato ad essere il PCI) ed è stato un esempio che ha fatto scuola: con l'eccezione del PD, tutti i partiti della seconda repubblica hanno la figura di un capo, spesso il fondatore, come unico vero elemento identitario.

Sono i partiti di Berlusconi, di Di Pietro, di Casini, insomma di qualcuno; entità senza collegamenti con la società, praticamente prive di sedi sul territorio e di militanti che, completamente prive, o con solo una parvenza, di democrazia interna, non hanno neppure delle vere e proprie dirigenze: solo cerchie di fedelissimi che hanno come unica dote la vicinanza ad un capo che, d'altra parte, non può certo veder di buon occhio l'emergere di personalità diverse dalla sua.

La caduta verticale della qualità dei nostri politici si spiega proprio con questo meccanismo, esaltato nel suo funzionamento dall’attuale legge elettorale che consegna nelle mani dei capi un potere pressoché assoluto sugli onorevoli ed i senatori del proprio partito. Il numero senza precedenti (circa il 50% stando a certi sondaggi) di elettori che non saprebbero per chi votare non è causato da una generica “sfiducia nella politica”, ma dalla sfiducia in questa classe di politicanti nominati dall’alto, oltre che dall’impossibilità di tanti di riconoscersi come berlusconiani o finiani, vendoliani, dipietristi o altro.

Alla luce di queste considerazione, è facile comprendere che la salvezza della nostra democrazia passi attraverso la ricostruzione di un sistema di partiti riconoscibili come tali; che, fondati su veri ideali e non sulla fedeltà ad un capo, siano contenitori di una pluralità d’idee e personalità in cui i cittadini possano pensare d’impegnarsi attivamente in prima persona, senza dover per questo essere amici degli amici o abbassarsi a baciare sacre pantofole.

Con buona pace di chi tira in ballo la crisi delle grandi ideologie per spiegare come siamo arrivati alla situazione attuale (le ideologie stanno poco bene ovunque, ma solo in Italia i partiti ed i loro ideali sono morti e sepolti), proprio il PD, erede di buona parte della tradizione e dell’elettorato del PCI, pur avendo una democrazia interna lungi dall’esser perfetta, è in questo un’eccezione. Le primarie con cui sceglierà il proprio candidato alla presidenza del Consiglio, anzi, dovrebbero essere prese a modello (non parlo del meccanismo con i suoi minuti dettagli; parlo del concetto) ed essere estese a qualunque partito e per qualunque carica politica.

Un ritorno alla preferenze, dentro liste scelte dai capi partito o chi per loro, non basta; pur avendo coscienza della realtà di alcune zone del paese, solo se i candidati onorevoli, senatori o parlamentari regionali, dovranno guadagnarsi prima la fiducia degli elettori dei propri partiti, all’interno dei propri collegi, si spezzerà la catena che ha reso la nostra politica schiava di poche personalità.

Emersi dal vuoto provocato da tangentopoli, figure secondarie scampate al diluvio in virtù della propria irrilevanza o arrivati al potere grazie a particolari doti mostrate lontano dalla politica (qualche decina o centinaio di miliardi, come una fama conquistata facendo bene il proprio mestiere di giudice, sono certo doti), sono proprio questi capi che dovrebbero prendere atto del fallimento della seconda repubblica che hanno egemonizzato e farsi promotori di questa democratizzazione della nostra vita pubblica.

Lo facessero riuscirebbero, in un colpo solo, a salvare la nostra democrazia e a diventare i padri nobili dei partiti di domani. Un sogno, me ne rendo conto. Per farlo, dimostrando d’avere a cuore gli interessi del paese e la capacità di guardare al futuro, dovrebbero essere dei politici: qualcosa che per un ventennio molti di loro hanno sempre ripetuto, e tutti loro hanno mostrato, di non essere.

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