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La crisi del dissenso; tra Turchia ed Occidente

Le proteste in Turchia sono tutt'altra cosa rispetto alle cosìdette "primavere arabe", e sono semmai molto più simili alle proteste viste in occidente negli ultimi anni. Probabilmente è questo il motivo per cui i manifestanti non otterranno quello che vogliono.

Quello che le recenti proteste in Turchia dovrebbero farci domandare è: quali obiettivi hanno i manifestanti? Pare brutto dirlo, ma la richiesta di dimissioni che viene confusamente urlata dalla "piazza" non trova ragione di essere accettata come legittima. Ed è ovvio che la rimozione di un parco non può essere la sola causa di tutto questo. Le proteste turche si inseriscono in quel fiume di proteste confuse che nel tempo hanno prodotto i vari "occupy Wall Street", gli "indignados de Puerta del Sol", il nostro "Popolo Viola" di qualche anno fa (prima vera rappresentazione mondiale di questo nuovo tipo di protesta che alcuni in maniera superficiale fanno "nascere sul web"), eccetera.

Questi gruppi, a volte grandi, a volte piccoli, hanno una cosa in comune: non posseggono gli strumenti e le possibilità di incidere sulle scelte politiche che contano. Può sembrare una banalità, ed invece è un fatto che andrebbe analizzato in maniera un po' più approfondita. Questi, chiamiamoli "movimenti", hanno una bella forza propulsiva e virale, ma sembrano non avere nient'altro che quella. Non si può incolpare solo "il potere delle élite" se le varie richieste - a volte sacrosante, a volte sconclusionate - di questi movimenti vengono ignorate. E mi rendo conto che non basta dire "è protesta che non diventa proposta". In Italia peraltro la protesta ha tentato di diventare in qualche modo "proposta", con il Movimento 5 Stelle, che per ora sembra essersi arenato e avvitato sulle sue contraddizioni e sull'incapacità di emanciparsi dal leader Grillo, in barba allo slogan "uno vale uno". 

Cosa ha prodotto "occupy Wall Street"? Dove sono finiti gli "indignados"? Le mie non sono domande critiche, ma semplici constatazioni. È ipotizzabile che questo tipo di protesta "generica" e apolitica non abbia alcuna efficacia effettiva nel dare risposte ai problemi che si vanno a denunciare? Non si dovrebbero tentare altri metodi più programmatici e più, appunto, "politici"? A mio avviso è questo il nodo gordiano: questi gruppi non hanno un'idea coerente di "politica", e come conseguenza non riescono a costituire quella spinta di profondità che servirebbe. Nonostante questa inefficacia, ad oggi, questa sembra la forma preferita di dissenso in quasi tutto il mondo (l'ultimo arrivato è il Brasile). Ma ritorniamo in Turchia, che per alcuni versi è un caso paradigmatico ed estremo.

In Turchia la protesta è nata e si è sviluppata intorno ad una motivazione che si può definire "ambientalista", ed è poi sfociata in una protesta generalizzata nei confronti del Governo - legittimo ma egemone - di Erdogan. Più la polizia si è comportava in maniera violenta, più le proteste si sono trasformate in rivolte. Erdogan non è sicuramente uno col piglio democratico, e lo stiamo osservando in questi giorni, ma bisogna chiarire che la situazione è molto più complessa di come sembra, e non c'è in atto uno scontro tra "buoni" e "cattivi". Non bisogna nemmeno cadere nell'ingenuità di paragonare queste proteste alle altre rivolte arabe, anche perché i turchi non sono arabi.

Sappiamo chi è Erdogan - un leader carismatico che dopo la forte vittoria elettorale ha sempre più accentrato il potere su di sé, ha le idee chiare sulla (sua) Turchia, e non si fa scrupoli per ottenere risultati -, ma chi sono i manifestanti? Si tenga conto che nel parlamento turco ci sono quattro partiti: due di sinistra (il Bdp curdo e il Chp kemalista), uno di destra (l'Mhp nazionalista) e il partito di Erdogan (l'Akp, conservatore). I primi tre partiti non sono mai andati d'accordo tra di loro, e nel complesso arrivano a sfiorare il 45% dei consensi. Il restante della popolazione è con l'Akp di Erdogan. L'occupazione di Gezi Park - da cui è nato tutto il resto - è stata iniziata da un parlamentare del Bdp. La sede ad Istanbul di questo partito è stata distrutta dagli stessi manifestanti, che dopo hanno incendiato anche la sede dell'Akp.

Come è possibile, date queste condizioni di partenza, prospettare un qualche avanzamento positivo delle proposte quasi tutte rispettabili che i manifestanti chiedono? Erdogan, in maniera molto scaltra, ha pure acconsentito ad un referendum sul progetto di Gezi Park. E se, come pare certo, la maggioranza dei votanti si dimostrasse favorevole? Va da sé che questo modo di operare e manifestare - che va ammesso, oggi sembra l'unico - rischia addirittura di essere controproducente, e di aumentare il già evidente autoritarismo egemonico di Erdogan.

Situazioni concettuali del genere, all'interno di questo nuovo format del dissenso, sono all'ordine del giorno, ed anzi, vi è quasi un vanto nel definirsi o, "né di destra né di sinistra", salvo poi - quando arriva il momento di concretizzare scelte e decisioni divergere per le inevitabili differenze -, oppure accettare, per così dire, gli orientamenti più diversi all'interno del gruppo avendo come unico obiettivo un nemico comune, molte volte generico e astratto, come ad esempio tutti i vari movimenti "occupy qualcosa".

Il dissenso, in questo modo, perde d'efficacia, di forza, di coerenza e diventa semplicemente carne fresca per telegiornali, per social network, senza che mai si potrà arrivare a decidere qualcosa di "politico", e quindi capace di incidere. Tutto ciò va favore del potere costituito, che in molti casi, oltre che costituito, è pure legittimato dal voto.

Una delle cose che la crisi economica ha fatto emergere, è la profondissima crisi del "dissenso", dissenso che non produce null'altro che slogan, viralità, simpatie, condivisioni, ma che poi, non avendo più solide radici "politiche" a cui aggrapparsi, perde di sostanza e va a scomparire, lasciando tutto uguale a sé stesso, fino al prossimo hastag.

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