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La Catalogna verso l’indipendenza: Parlamento vota la secessione, Madrid insorge

Il Parlamento catalano ha fatto un passo importante verso l'indipendenza della Catalogna dalla Spagna, Madrid ha dichiarato che non accetterà mai l'indipendenza, ma non si vede come la Spagna possa opporsi senza cessare di essere un paese democratico. Le radici del problema nazionale catalano.

I nazionalisti di Junts Pel Si (JxS), sulla scorta delle ultime elezioni autonomiche che hanno largamente vinto, proseguono verso il loro obiettivo di una Catalogna indipendente. Nei giorni scorsi infatti il Parlamento della Generalitat ha votato la mozione che avvia la formazione della repubblica catalana, con 72 deputati a favore e 63 contrari. Ma a Madrid non sono d’accordo: il premier Rajoy ha detto che il voto catalano è nullo perché la Costituzione spagnola esclude ogni diritto di secedere unilateralmente. Si profila dunque uno scontro politico che potrebbe arrivare al calor bianco.

Chi ha ragione? La domanda è puramente teorica e dunque quasi irrilevante: certo conta molto meno dell’altra, schiettamente pratica: che cosa succederà? La risposta chiama in causa i rapporti di forza in Spagna e nell’insieme dell’Europa. E anche nella stessa Catalogna, perché i risultati elettorali dello scorso settembre non hanno dato la maggioranza ai secessionisti, fermatisi al 48% dei voti malgrado il grande slam di seggi in Parlamento.

Gli indipendentisti abbracciano un ampio ventaglio di opinioni, dalla destra alla sinistra, ma tutti dicono che la Catalogna è una nazione e dunque gode del diritto all’autodeterminazione. Madrid lo nega: però sul piano politico non si vede come la Spagna, di fronte a una maggioranza secessionista nella regione, potrebbe opporsi all’indipendenza senza smettere di essere un Paese democratico.

Che la Catalogna sia una nazione è difficile mettere in dubbio, anche se la Corte Costituzionale di Madrid, nel 2010, ha bocciato la dizione. La Costituzione spagnola riconosce però un concetto di “nazionalità storica”, nel quale rientra la Catalogna, e già in fase costituente l’ex falangista e attuale popolare Manuel Fraga Iribarne aveva parlato del «fatto indiscutibile che nazione e nazionalità sono la stessa cosa».

La Catalogna è stata per secoli una principalità autonoma del regno di Aragona, la cui unione personale con la Castiglia è cessata nel 1712, sostituita dalla pura e semplice incorporazione. Da quel momento il castigliano è stato imposto come lingua ufficiale a tutto il Regno di Spagna, ma non si è affatto smesso di parlare catalano e di produrre una cospicua letteratura in questa lingua.

Durante la guerra civile del 1936-39 sia la Repubblica che i ribelli hanno represso l’autonomia catalana, e gli anni del franchismo sono stati ancora più opprimenti. Con il ritorno della democrazia negli anni Settanta però la lingua e la cultura catalana hanno conosciuto una grandiosa rinascita.

I nazionalisti desiderano conseguire l’indipendenza con un bon cop de falç, cioè un taglio netto (come dice l’inno nazionale catalano, Els segadors) senza però abbandonare l’Unione Europea.

La prosperità della Catalogna, in effetti, è il risultato anche dell’adesione della Spagna all’Unione, che ha aperto mercati e favorito la modernizzazione dell’economia e alla quale nessuno vuole rinunciare. E c’è una questione di soldi: come canta Anselm Turmeda, Diners de tort fan veritat (I soldi dell’errore fanno verità). In Spagna, la Catalogna è l’area più ricca: con il 16% della popolazione, produce il 20% del pil e assicura un quarto dell’export. Punctum dolens, è anche la regione che paga più tasse. I catalanisti fanno i loro conti e dicono che Madrid si prende una parte eccessiva del pil catalano: secondo la Generalitat, l’8,5% nel 2011. I calcoli di Madrid dicono invece che il contributo netto della Catalogna è del 4,3%.

Non è tuttavia una pura e semplice questione di denaro. L’orgoglio nazionalista è evidente nelle ultime manifestazioni-monstre, in cui ha sfilato un catalano su cinque, o nei video postati su YouTube con la canzone Ara és l’hora, adesso è ora. All’indipendenza, oltre a Madrid, si oppongono altri due ostacoli: l’immigrazione, e la posizione più volte espressa da Bruxelles secondo cui un possibile nuovo Stato sovrano, se vorrà entrare nell’Unione, dovrà partire da zero con la lunga trafila della domanda di adesione e dei negoziati.

Una parte degli immigrati non si è assimilata: si sente spagnola e magari non è capace di spiccicare nemmeno due parole in catalano. Ovvio che non voterà mai per il distacco dalla Spagna. La posizione dell’Ue è meno un problema: l’Unione parla come parla perché non può certo facilitare in alcun modo la dissoluzione di uno Stato membro, ma una volta che l’indipendenza fosse votata, e accettata da Madrid, nessuno nell’Ue avrebbe interesse a punire la Catalogna facendole fare un’umiliante anticamera. Il 48% dei voti resta una minoranza, ma è a un passo dal fatidico 50% più uno: i nazionalisti non mollano e avendo in mano il Parlamento, possono spingere per un referendum che preceda o segua l’indipendenza. Madrid ha poco da opporre, l’esistenza di una forte posizione nazionalista e indipendentista non può essere negata ed è impensabile che in Europa vi possa essere una repressione militare di un movimento politico non violento. È facile previsione che la parola tornerà presto alle urne – e potrebbe davvero uscirne un nuovo Stato indipendente.

 

 

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