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L’ultimo Round

Manifestazione contadini cinesi contro il Wto

Salta l’accordo dopo nove giorni di riunioni al Wto di Ginevra. Il sistema dell’organizzazione mondiale del commercio mostra crepe enormi. Nuovo ruolo di Cina e India. E del Brasile

Tutti a casa, nessuno contento. Ginevra: nove giorni e nove notti di riunioni, trattative serrate, incontri bilaterali, meeting di area: tutto è stato inutile. l’ottavo negoziato commerciale multilaterale, noto come il "Doha round", dal nome della capitale del Qatar dove fu lanciato nel novembre 2001, è miseramente fallito. Il Wto è di fatto immobilizzato dal suo gigantismo, dalle trasformazioni economiche e geopolitiche degli ultimi dieci anni, con un chiaro spostamento verso le economie asiatiche, Cina e India in testa, e verso l’America latina esplosa in particolare con la presidenza Lula in Brasile. Sono loro i nuovi giganti. All’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio le tradizionali leadership degli Stati Uniti e dell’Unione Europea si sono ridotte. Contano, ma non più come dieci anni fa. E già qualcuno urla alla fine della globalizzazione, almeno per come è stata intesa fino ad oggi.
Il “Doha round”, convocato in parte come reazione all’attacco alle Torri Gemelle, evento letto anche come un attacco all’economia globalizzata, voleva essere un tentativo tradizionale di aiutare molti Paesi aderenti a uscire dal sottosviluppo. Non è andata così. Il summit di Ginevra è stato soltanto un test per individuare i nuovi equilibri economici del pianeta. Una prova di forza, fatta di ricatti economici e politici. Si cercava di dare ordine agli enormi flussi finanziari che continuano ad ingrassare, con le colossali rendite petrolifere e i surplus commerciali, le sovradimensionate riserve monetarie e i fondi sovrani d’investimento di questi Paesi emergenti, che di fatto in questi anni hanno preso il posto che avevano grandi istituzioni finanziarie americane ed europee. Ma in sede di Wto ogni voto ha lo stesso peso per raggiungere l’unanimità richiesta per ogni decisione. È stato impossibile, alla fine del meeting di Ginevra, trovare un accordo unanime fra i 153 Stati membri. Quindi tutti a casa, affidando a una coda “tecnica” di incontri sui cui nessuno fa affidamento.


Ufficialmente il “Doha Round” si è chiuso con un nulla di fatto a causa della posizione assunta da India e Cina India all’ultimo momento: una richiesta ultimativa di speciali salvaguardie per i loro produttori agricoli. Fino all’ultimo giorno dei lavori sembravano superati i principali ostacoli del negoziato e un accordo sembrava imminente. La posizione dei Paesi asiatici, per molti incomprensibile, è da leggere probabilmente come un tentativo di forzare, attraverso la ricerca di accordi bilaterali extra Wto, relazioni “speciali” di queste potenze (la Cina ha nelle proprie mani gran parte delle “cambiali” del debito pubblico statunitense) con Usa e Ue. Almeno per quanto riguarda le relazioni con gli Usa, questa strategia indo-cinese sembra essere perdente: in piena campagna elettorale, gli Stati uniti sono intenzionati a favorire una politica protezionistica o al massimo privilegiare un sistema di accordi commerciali bilaterali su base regionale. Gli effetti della globalizzazione non sono più quelli sperati anche grazie all’apertura del Wto alle nuove economie emergenti, senza parlare di 7 anni di conflitti internazionali dissanguanti per l’economia e le casse pubbliche di Washington.
Il fallimento di questa seduta del “Doha Round” è stato causato anche dagli effetti globali della crisi dei prezzi dei cereali (e dei combustibili). Al centro dello scontro, infatti, la protezione dei piccoli contadini indiani e cinesi. Nuova Delhi e Pechino hanno chiesto di aumentare i propri dazi agricoli, nel caso di un aumento anomalo delle importazioni: per proteggere quindi le centinaia di milioni (solo in Cina i piccoli contadini sono 800 milioni) di produttori nazionali da un innalzamento delle quote di prodotti importati. La bozza di accordo indicava un limite del 40 per cento delle importazioni. L’India non si è mossa dalla sua posizione: il 10 per cento. Secondo gli americani troppo bassa, e perciò inaccettabile. Tutti i tentativi di mediazione sono falliti.
Diversa da quella asiaticala posizione del Brasile, altra potenza economica emergente, che negli anni ha cambiato il suo approccio all’interno dei negoziati del Doha Round. Anni fa Lula aveva tenuto una posizione rigida ma anticonformista, spiazzando la conduzione statunitense dell’istituzione. In particolare proprio sul settore agricolo. Non è un caso. Sia per quanto riguarda l’esportazione di alimenti che di biocarburanti il Brasile sta assumendo un ruolo fondamentale sul piano globale. Primo produttore di bio etanolo (destinato in particolare al mercato dell’America latina e statunitense) e terzo produttore mondiale di alimenti. «È un salto nel buio», ha commentato a caldo, il ministro degli Esteri brasiliano Amorim. Certo non è un successo per un Paese come il Brasile che si vuole porre come alternativa, non solo regionale, allo strapotere statunitense nella conquista (o meglio nella co-partecipazione) ai mercati asiatici. Inoltre Cina e Brasile si stanno confrontando direttamente in alcune aree dell’Africa, e in particolare in Mozambico, dove entrambe i Paesi stanno conquistando spazi economici importanti. A dare il colpo di grazia alla mediazione Lula, ci ha pensato poi Joao Pedro Stedile, leader del più grande movimento sociale del Paese latinoamericano: «Il Wto non ha mandato, ne da parte delle Nazioni Unite ne dai propri popoli, di prendere decisioni sul cibo che è un diritto e non una merce - ha dichiarato Stedile - Il fallimento del Doha Round, anche se il governo brasiliano ha accettato in maniera vergognosa la proposta dei Paesi ricchi, è positivo per i poveri dei Paesi in vi di sviluppo».
Altrettanto spietato il giudizio delle Organizzazioni non governative. «La pietosa bugia dello sviluppo non ha retto» e ha fatto fallire i negoziati sul Wto a Ginevra. Questo il commento dell’Osservatorio italiano sul commercio internazionale “Tradewatch”, promosso tra gli altri da Crocevia, Crbm, Fair, Fondazione Banca etica, Rete Lilliput, Gruppo d’appoggio al movimento contadino africano. «Il tentativo pietoso fatto dal direttore generale Pascal Lamy - ha riferito in una nota Tradewatch - di proporre ai Paesi più poveri, preoccupati per i prezzi alimentari che crescono e per le fabbriche che chiudono, un magro meccanismo di salvaguardia nel caso in cui le importazioni di alcuni prodotti crescessero all’improvviso del 40 per cento, è sembrata l’ennesima foglia di fico». Per l’esattezza Pascal Lamy, il direttore dell’organizzazione nel cui ambito si sono svolti i negoziati commerciali multilaterali, ha dichiarato che «il Wto è un’assicurazione contro il protezionismo». Ma gran parte dei Paesi in via di sviluppo e Cina e India non la pensano come lui.

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