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 Home page > Tribuna Libera > L’orologio segnava le quattro

L’orologio segnava le quattro

Come mi capita da un po’, la sensazione di non poter respirare mi ha svegliato di soprassalto. L’orologio segnava le quattro. 

Mi sono rasserenato, ritrovando la coraggiosa paura che è diventata la mia compagna di viaggio e ho raggiunto la finestra socchiusa, mentre il giorno spuntava da Oriente e dall’altra parte del mondo la notte calava sul riposo di quell’umanità che vive le nostre stesse gioie e i nostri tormenti. Nel silenzio ancora profondo, mi è sembrato d’ascoltare la feroce litania dei pennivendoli, dei seminatori d’odio e dei venditori di fumo, che ci ammoniscono ogni giorno: sono nostri nemici.

Sono iniziate così, per reazione, le amare riflessioni che mi tengono compagnia.
Ecco dove ci hanno condotto, mi sono detto. Troncato il filo della memoria storica, impoverita la scuola, assaliti i docenti fannulloni con tre mesi di ferie, eliminata la funzione civilizzatrice delle Università, si è aperta la via alla barbarie. Decenni di lotte e conquiste sono diventati zavorra da eliminare, per agevolare il successo di un nuovo modello di società. Mercato, consumo e profitto sono i tre volti di una realtà che non ha posto per sentimenti di umanità. Nessun Medio Evo ha avuto caratteri tanto lontani da ciò che di giusto e di amorevole regola i rapporti umani. Come i nostri anziani e i cuccioli d’uomo, l’orsa soccombe all’ignoranza, alla desertificazione dei sentimenti di umanità e solidarietà. Stupri, omicidi, sprezzo della vita in ogni sua forma sono la cifra della tragedia che viviamo. Se non ci fermeremo subito, ho pensato, sarà troppo tardi. Come altre volte nella storia umana, la Francia ha mostrato una via. Seguiamola subito, ribelliamoci. Ora o mai più.

Le ore calde hanno poi abbassato a 39 la pressione minima ed è stato come fluttuare nell’aria marcia. Di buono c’è che non ho perso la voglia di riflettere, di uscire da me stesso e aprire un dialogo per quanto possibile militante. Se potessi, mi sono domandato, cosa direi oggi ai miei immaginari studenti e a colleghi così pazienti da voler dialogare? Ricorderei l’epigramma sprezzante indirizzato a Cesare da Gaio Valerio Catullo, dissacrante poeta e maestro dei miei anni giovanili: «Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere, / nec scire utrum sis albus an ater homo» («Cesare, non mi sforzo di piacerti, / né di sapere se sei bianco o nero»).
E’ un’immortale lezione di indipendenza dal potere, un grido di libertà, in cui qualcuno ha voluto vedere un inesistente qualunquismo. In tempi di opportunismo e analfabetismo di valori, quale occasione migliore di quel grido libertario che attraversa i millenni per condurre nelle aule il bisogno di libertà, l’orgogliosa affermazione di indipendenza culturale di uno spirito critico, libero e per certi versi anarchico? Un orgoglioso bisogno che manca più dell’ossigeno a questo nostro tempo avvelenato dalle tossine della sottomissione.

Immaginatevi per un attimo il rogo impotente che avrebbe voluto imbavagliare Giordano Bruno; state attenti, non importa se volesse parlare degli uomini o di Dio, perché il fuoco si è consumato e il tempo non l’ha cancellato: quel suo esempio vi appartiene. E’ giunto a noi, per mille vie, anche attraverso le parole di Giovanni Bergamasco, un russo napoletano, che, beffandosi del potere, prima levò al vento il vessillo nero dell’anarchia nel domicilio coatto, poi sfidò mare e inseguitori e viaggiando dalla Sicilia alla Tunisia, fece al contrario il viaggio dell’evasione. Non è forse un viaggio d’evasione quello di chi oggi preferisce morire, piuttosto che darla vinta a carnefici da noi prezzolati, lungo la rotta che dalla Tunisia giunge fino a noi? Un viaggio che conduce alla morte o alle nostre inospitali coste fratelli e sorelle africane, cui rendiamo la vita impossibile, rubandogli l’acqua, il cibo e tutte le possibili risorse e alterando il clima del pianeta di cui tutti siamo figli.
Chi di voi non ritrova qualcosa della lezione di Catullo nell’orgogliosa rivendicazione di libertà di quel Giovanni Bergamasco? La storia del prigioniero politico ci chiama in causa tutti, oggi che il suo antico nemico pretende di imporre anche a noi il suo pensiero; e così le sue parole: «sette volte mi avete rinchiuso in manicomio e sette volte ne sono uscito. Perciò ricordate: mi spezzerò, ma non mi piegherò!». Credetemi, giovani amici, colleghe e colleghi, è per imbavagliarvi che stanno manomettendo la vostra storia. Comunque si presentino, quali che siano i panni che vestono, destra, sinistra o centro, assieme, concordi e uniti in un progetto distruttivo, sanno bene che, se vi sottraggono la conoscenza, non potrete resistere, non potrete scegliere di spezzarvi, piuttosto che alzare la bandiera della resa.

Quanto a voi, colleghe e colleghi docenti, ricordatelo, portatelo nelle aule e raccontatelo quel 1944 in cui alcuni docenti, martiri più che eroi, decisi a non spiegare la storia secondo Gentile e Mussolini, finirono trucidati a Piazzale Loreto e lasciati al sole d’agosto come monito per i riottosi. E’ importante che voi riportiate nelle vostre aule, costi quel che costi, la storia di quella piazza, perché fu per quei nostri colleghi, decisi a farsi trucidare piuttosto che cedere alla violenza di un potere che li voleva strumenti di falsa conoscenza, se pochi mesi dopo il nonno della Mussolini e il maestro politico di Larussa si ritrovò lì a Piazzale Loreto a pagare col suo putrido sangue il sangue di quei docenti.

Su questa via, noi potremmo organizzare i programmi di una nuova scuola. Dipende soprattutto da noi. Perché il nostro sventurato Paese non è stato solo, come lo descrive il Poeta, la «serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!». Essa è più volte caduta, ma più volte si è rialzata. E quando tutto è sembrato perso, quando il patibolo si è illuso di chiudere la partita, c’è stato chi, come l’immensa Eleonora Pimentel Fonseca, ha trovato la lucidità per affidarci un compito irrinunciabile. Ricordate le sue parole in punto di morte: «forse un giorno ci farà bene ricordare anche queste cose». Ricordatele. Sono le «cose» che non si vuole diciamo. Le «cose» per cui si sono distrutte le nostre scuole, si è mortificato il nostro lavoro. Le «cose» di cui il potere, sfidato da Catullo, ha una terribile paura.

L’età, una vita spesa anzitutto per impedire che questo violento silenzio prendesse a regnare, oggi mi consentono di provare a indicare umilmente una via, a indicare la bussola su cui seguire la rotta. Essa non è figlia di una qualche mia qualità, se non quella dell’ascolto. Mi è stata suggerita da tutto ciò che ho appreso e provato a trasmettere. Ve la offro con tutta la modestia di ci sono capace, solo perché sono convinto che, per quanto forte e attrezzato sia il nemico, abbiamo risorse umane, capacità e onestà intellettuale per seguire Catullo e i suoi mille, nobili successori. E’ l’invito di chi è stato un giovanissimo insegnante, che ha fatto la sua strada e che i faticosi risvegli notturni e la sensazione che l’aria gli manchi, rendono consapevole del tempo che stringe. Mi suggerirono tutto l’amato Catullo e Ugo Foscolo, insuperabile maestro, che al potere deciso a piegarlo, regalandogli onori e la direzione di un giornale, oppose un rifiuto orgoglioso e scelse di morire nella miseria pidocchiosa di una periferia londinese. Nel suo difficile e faticoso viaggio verso l’ultima notte, nelle mani di un amico dettò il suo testamento. Non era poesia, ma l’ultimo respiro palpitante al termine d’una lunga lotta. Lo ritrovai per avventura e pensai che fosse umano e giusto salvarlo dalle offese del tempo.
«Amico, se ti compri, /pagati quanto vali. / Non un quattrino in più. Credimi, non sentirti prezioso, /
tanto nemmeno serve e poi si muore. / Ma se ti vendono un giorno per caso, / e magari all’incanto,/
tu non avere prezzo. / Stattene duro e il banditore invano / attenda di picchiare il martelletto».

Grazie per l’attenzione.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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