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L’euro come pretesto autarchico

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A una superficiale disamina, l'euro potrebbe confondersi con una sorta di marco svalutato, quando in effetti esso si propone come un subdolo espediente economico compendiante in un'unica valuta le quotazioni registrate nel 1999, rispetto alla moneta tedesca, dalle singole divise nazionali della cosiddetta zona euro. All'epoca, segnatamente all'Italia, fu fissato il valore dell'euro nella misura di 1936,27 lire rispetto al marco. Il quale era allora quotato 990 lire. Sulla base di quel computo, e stabilito il valore dell'euro pari a 1,99583 marchi, in Italia il valore dello stesso veniva così ricavato: 990x1,99583=1936,2717. Di conseguenza, per la determinazione del valore dell'euro negli altri Paesi dell'eurozona, bastava sostituire la prima cifra con quella riferita alla quotazione all'epoca registrata dalla moneta dello Stato in questione.

Appare così evidente come l'euro sia nato da un inganno: esso esprime infatti non una moneta unica, come potrebbe erroneamente sembrare, ma un ibrido monetario compendiante gli specifici valori dallo stesso assunti nelle contingenze economiche dei singoli Stati della zona euro. Da un così paradossale rapporto, derivano le differenze del costo della vita nei diversi Stati dell'euro. Succede così che, nell'ipotesi di un pensionato italiano, costui vivrebbe meglio nel Portogallo. La differenza sta nel fatto che questo Paese abbia un costo della vita più basso di quello italiano e che abbia pertanto anche pensioni e retribuzioni inferiori a quelle italiane. Al contrario, in Germania, lo stesso pensionato vivrebbe peggio, perché lì il costo della vita è più alto di quello italiano. L'insidia dell'euro consiste pertanto nel fatto che la sua quotazione non segua la dinamica del mercato: quella stessa dinamica che le singole monete dell'eurozona conoscevano in precedenza in funzione delle specifiche circostanze economiche.

Qualcuno ha obiettato che l'adozione dell'euro avrebbe scongiurato per l'Italia il rischio di una svalutazione. Questo però non è vero, dal momento che, proprio la mancata possibilità di svalutazione delle singole monete nazionali afferenti all'euro, abbia determinato una stagnazione economica, impedendo alle imprese nazionali di essere competitive nelle esportazioni in ragione del minor costo delle materie prime legato proprio alla loro possibile svalutazione rispetto all'euro. E' indicativa al riguardo la svalutazione subìta dalla lira nel 1992, quando raggiunse la soglia del 20%. Ebbene, a quella situazione seguì una inflazione del solo 5%. Il che condusse a un incremento delle esportazioni e, di conseguenza, della produzione e della occupazione.

La Germania è fortemente motivata al mantenimento della moneta unica, perché tramite essa unifica il mercato europeo riguardo le sue esportazioni. Per questa ragione, essa non ha convenienza nella svalutazione della lira, la quale renderebbe più cari i suoi prodotti. Inoltre, il passaggio dalla lira all'euro ha determinato un generale aumento dei prezzi, poiché, in tale evenienza di mercato, i prezzi tendono ad adeguarsi automaticamente verso l'alto anche a causa del dominio della economia tedesca. Emerge così la reale portata distruttiva insita nella adozione dell'euro.

Inoltre, con il passaggio all'euro, al fine di scongiurare un possibile aumento del costo dei suoi prodotti, la Germania ha fatto ricorso a un banale accorgimento: ha sfruttato l'esercito dei disoccupati per arginare l'incremento del costo del lavoro dovuto all'euro. Ha attinto in proposito, e in maniera preponderante, alla abbondante mano d'opera straniera, costituita pressoché esclusivamente dai migranti, nell'intento di contenere l'aumento dei salari, penalizzando di conseguenza i lavoratori tedeschi, seppur compensandolo attraverso un significativo incremento produttivo.

Alla luce di queste brevi riflessioni, risulta evidente come il ritorno alla lira non comporterebbe nessun cataclisma sociale. In quel caso, le imprese italiane dovrebbero contenere il costo delle merci per non condizionare negativamente il mercato interno, ma in compenso ne deriverebbero una sensibile agevolazione attraverso l'incremento delle esportazioni. In quel caso, la Germania si troverebbe in difficoltà e si vedrebbe costretta ad abbandonare l'euro per poter competere con le imprese italiane, le quali produrrebbero con costi minimi e con una moneta più debole dell'euro. Nello stesso tempo, le retribuzioni e le pensioni non perderebbero il rispettivo potere d'acquisto, poiché si stabilirebbe un nuovo equilibrio di mercato comportante la riduzione dei costi di produzione.

Quella imposta con l'euro, è una Europa non comandata, ma soverchiata dalle banche: vale a dire da combriccole di furbi vocati alle speculazioni di borsa e del tutto refrattari al sostegno dell'economia dei produttori.

La caduta dell'euro porterebbe a riaffermare l'inalienabile principio secondo il quale ogni Popolo debba avere un governo non soggiacente alle follie dei poteri sovranazionali. Un governo sovranazionale, come quello attuale, non può imporre leggi a uno Stato se non privandolo della sua sovranità nazionale. E infatti, l'attuale Unione Europea, è un diabolico artificio costruito a tavolino, ed è il frutto di un mito ideologico (altro che caduta delle ideologie!) avulso dal rispetto delle fondamentali leggi economiche.

Una Europa finalmente libera dall'euro, sarebbe una Europa sulla quale spirerebbe il gradevole vento della indipendenza e della libertà dalla tirannia dell'economia della globalizzazione: un'Europa la quale non sarebbe costretta a sottostare agli interessi transnazionali delle banche e delle borse, le quali lucrano a detrimento del lavoro reale delle imprese.

In questa Europa Unita, non c'è democrazia: c'è soltanto un compulsivo dispotismo burocratico volto a schiavizzare i popoli. Non bisognerebbe mai dimenticare inoltre che ogni Stato abbia il diritto di tutelarsi dai prodotti stranieri attraverso l'imposizione di dazi. Solo che questo non è consentito dentro il rigore dell'Europa Unita, la quale si arroga però il diritto di elevare dazi sulle merci che, prodotte al suo interno, siano destinate all'esportazione, danneggiando così quelle attività imprenditoriali che esportino fuori dall'Unione. In una situazione ordinaria, questa sarebbe considerata mera follia. Ma qui è la regola. Perché l'Europa, perché questa Europa, è di fatto diventata la patria degli speculatori della finanza.

 

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