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Italia: aristocrazia o repubblica?

C’è un sottile filo rosso che lega la situazione aberrante dei diritti nel nostro paese, quelli civili, del lavoro, degli stranieri, della condizione sociale, della libertà nella mobilità sociale, economica e culturale. Un paese che, come si è detto tante volte, è bloccato, perché non ha mai pienamente assunto su di sé una cultura profondamente “repubblicana”, intesa in contrapposizione con quella “aristocratica” che invece pervade il nostro paese, se non nelle forme, sicuramente nella sostanza dei rapporti interpersonali e, quindi, dei rapporti sociali, che discendono dalla generalizzazione dei rapporti interpersonali.

Così abbiamo l’arroganza della maggioranza, non solo politica ma in primis sociale, di un paese che è in regressione culturale, ancor prima che economica, e quindi cerca un’àncora, un appiglio, per non dover navigare nelle burrascose e inquiete acque dell’ignoto, in quella che si chiama tradizione, nel conservatorismo più genuino.


Un conservatorismo che, se già non lo è, sta diventando la cultura dominante. Cultura dominante di un paese dove è normale che il lavoro sia una concessione, che sia il datore di lavoro a elargire, a qualsiasi livello, un favore ai suoi dipendenti e non il lavoratore, con la sua opera, sia materiale sia intellettuale, a fare un favore al suo datore di lavoro, che sia un piccolo imprenditore, una grande multinazionale, una scuola, un impiego pubblico, una Università, una ditta di servizi privata, una finta cooperativa. Ribaltare l’aristocrazia del lavoro come elargizione dall’alto – dove il “servilismo” ne è il riflesso – con il repubblicanesimo, la democrazia vera e attuata, dove i lavoratori, tutti indipendentemente dal loro livello culturale, siano i primi a rivendicare la dignità del loro lavoro. Questo dovrebbe essere il compito dei riformisti. E questo si declina, per esempio, non accettando e denunciando le finte cooperative di servizi cui molti sono costretti a fare parte, magari spostati a forza da precedenti forme di lavoro tradizionale, denunciando e rifiutando – in senso soprattutto culturale – i ricatti dei lavoro sottopagati o senza diritti fondamentali di malattie, maternità, ferie, che sono entrati nella cultura dominante, anche di sinistra, in nome della produttività e dell’occupazione. Idea che non può che non cadere quando ci rendiamo conto che non possiamo competere con condizioni del lavoro come quelle di Cina o India, a meno che non vogliamo portare il paese al livello di due secoli fa.

Lo stesso servilismo, la stessa dipendenza dalla cultura dominante, che nel mondo del lavoro è quella tradizionale del “buon padrone” che elargisce, come il buon sovrano che concede il pane, si ritrova nella percezione dei diritti delle minoranze, che siano minoranze sessuali, etniche, culturali, che possono essere magnanimamente elargiti dal blocco maggioritario e ogni voce più elevata, ogni grido di sofferenza più forte è visto come un fastidio, da bollare come laicismo o come “estremismo gay”, o come “assurde lamentele di stranieri che devono solo ringraziarci e che per tutto il resto devono stare zitti, siamo già troppo buoni a farli stare qui”, o come “piagnisteo di bamboccioni che si devono contentare di quello che gli può dare il loro barone”.

La vera e compiuta repubblica democratica non può però venire concessa, non può essere portata da qualcuno esterno alla società, può nascere solamente quando la società stessa muta e si “rivolta” contro il conservatorismo aristocratico, quando si “prendono i forconi” e si abbatte alla radice l’ancien régime. Un moto che sia genuinamente repubblicano, un moto cioè che non cerchi un nuovo sovrano o voglia semplicemente abattere una casta per sostituirla con un’altra, è certamente difficile e lento, ma deve procedere inesorabilmente. Con il coraggio quotidiano di chi continua a sostenere che le minoranze non possono essere schiacciate dalle maggioranze, che la democrazia non è questo ma è un processo più complesso di condivisione. Che per una repubblica sana è necessaria la partecipazione, dove tutti, nessuno escluso, hanno il loro spazio pubblico e nulla si può delegare. Dove non si devono formare “aristocrazie elettive” ma spazi democratici eletti. Sottile differenza, più difficile a formalizzare che ad attuare. Le forme infatti già ci sono, ma la loro attuazione culturale manca. Questa missione culturale repubblicana che è la prima missione dei progressisti non può mai venire meno, deve essere sempre presente come primo compito. Nessuna riforma è possibile in una aristocrazia, solo una vera repubblica consente il progresso democratico e anzi lo rende inevitabile. Perciò tutti i democratici devono sentire che il loro primo compito è quello di battersi perché la cultura repubblicana diventi finalmente in italia cultura dominante.

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