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Israele e il senso dell’invasione di Gaza

Avi Shlaim è docente di Relazioni internazionali all’Università di Oxford ed è autore di Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo [versione italiana Il Ponte editrice, 2003] e di Lion of Jordan: King Hussein’s Life in War and Peace [Il Leone di Giordania: la vita di re Hussein in guerra e in pace].

Si può trovare un senso all’insensata guerra di Israele contro Gaza solo capendo il contesto storico. La creazione dello stato di Israele nel 1948 fu causa di un’enorme ingiustizia verso i Palestinesi. I politici britannici mal tollerarono la faziosità degli Stati Uniti verso il neonato stato. Il 2 giugno 1948, sir John Troutbeck scrisse al Ministro degli Esteri che gli Statunitensi erano responsabili della creazione di uno stato canaglia guidato da «un gruppo di capi del tutto privo di scrupoli». Pensavo che questo giudizio fosse troppo duro, ma la brutale aggressione di Israele al popolo di Gaza, e la complicità dell’amministrazione Bush, ha riaperto la questione.

Chi scrive prestò servizio con fedeltà nell’esercito israeliano a metà degli anni Sessanta e non ha mai messo in discussione la legittimità dello stato di Israele secondo i confini di prima del 1967. Ciò che respingo senz’altro è il progetto coloniale sionista al di là della Linea verde. L’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte di Israele dopo la guerra del giugno 1967 ha assai poco a che fare con la sicurezza. È solo una questione di espansionismo territoriale. L’obiettivo era quello di creare una Grande Israele attraverso un permanente controllo politico, economico e militare dei territori palestinesi. E il risultato è stata una delle più lunghe e brutali occupazioni militari dei tempi moderni.

Quarant’anni di controllo israeliano hanno provocato danni incalcolabili all’economia della Striscia di Gaza. Con una folla di profughi del 1948 stipati in una sottile striscia di terra, senza infrastrutture e senza risorse naturali, il futuro di Gaza è sempre stato buio. Ma Gaza non è solamente un caso di sottosviluppo economico, ma un caso, unico e crudele, di regressione pianificata dello sviluppo. Per usare un’espressione biblica, Israele ha fatto regredire il popolo di Gaza a tagliatori di legna e portatori d’acqua, a una fonte di manodopera a basso costo e a un mercato prigioniero per i beni di Israele. Lo sviluppo dell’industria locale è stato attivamente ostacolato affinché fosse impossibile ai Palestinesi rompere il vincolo di subordinazione a Israele e creare le fondamenta economiche necessarie per una vera indipendenza politica.

Gaza è il classico caso di sfruttamento coloniale nell’era post-coloniale. Le colonie ebraiche nei territori occupati sono immorali, illegali. Sono un ostacolo insormontabile alla pace. Sono allo stesso tempo strumento di sfruttamento e simbolo dell’odiata occupazione. A Gaza, i coloni ebrei erano soltanto ottomila nel 2005, a fronte di un milione 400mila nativi. Eppure quei coloni controllavano un quarto del territorio, il 40 percento della superficie coltivabile e facevano la parte del leone delle scarse risorse idriche. A gomito a gomito con questi stranieri intrusi, la maggioranza della popolazione locale viveva in condizioni meschine, in inaudita povertà. Ancora oggi l’ottanta percento vive con meno di due dollari al giorno. Le condizioni di vita nella Striscia rimangono un affronto ai valori della civiltà, un’importante causa scatenante della resistenza e un fertile terreno per il proliferare dell’estremismo politico.

Nell’agosto del 2005 il governo del Likud di Ariel Sharon ritirò unilateralmente i coloni da Gaza, richiamando tutti gli ottomila coloni e distruggendo le case e le fattorie che si lasciavano alle spalle. Hamas, il movimento di resistenza islamica, fu il protagonista della campagna che portò gli Israeliani a uscire da Gaza. Il ritiro fu un’umiliazione per le Forze di difesa israeliane. Sharon presentò al mondo il ritiro da Gaza come un contributo al processo di pace, basato sulla soluzione di due stati. Ma l’anno dopo, 12mila Israeliani colonizzarono la Cisgiordania, riducendo ulteriormente le dimensioni di uno possibile stato palestinese indipendente. Impossessarsi della terra e trattare la pace sono cose inconciliabili. Israele era in grado di scegliere, e scelse la terra invece della pace.

Il vero scopo di quella mossa fu quello di ridisegnare unilateralmente i confini di una Grande Israele inglobando le principali colonie della Cisgiordania nello stato di Israele. Il ritiro da Gaza, perciò, non fu affatto il preludio a un accordo di pace con l’Autorità palestinese, ma fu il preludio a un’ulteriore espansione sionista in Cisgiordania. Fu una decisione unilaterale di Israele presa in favore di quello che fu visto, erroneamente per conto mio, come l’interesse nazionale israeliano. Ben radicato in un rifiuto di fondo dell’identità nazionale dei Palestinesi, il ritiro da Gaza fu parte di iniziativa di lungo termine per negare al popolo palestinese un’esistenza politica indipendente sulla propria terra.

I coloni israeliani furono sì ritirati, ma i soldati di Israele continuarono a controllare tutti gli accessi alla striscia di Gaza per terra, per mare e per cielo. Gaza fu trasformata da un giorno all’altro in una prigione a cielo aperto. Da allora in avanti l’aviazione israeliana fu libera di sganciare bombe senza nessuna limitazione, di provocare boati sonici volando a bassa quota e rompendo il muro del suono, e di terrorizzare gli sventurati abitanti di questa prigione.

Israle si compiace di rappresentarsi come un’isola di democrazia in un mare di autoritarismo. Eppure Israele non ha mai fatto niente nella sua storia per promuovere la democrazia nei territori arabi, anzi a fatto molto per indebolirla. Israele collabora segretamente da lungo tempo con i regimi reazionari arabi per sopprimere il nazionalismo palestinese. Malgrado tutti questi ostacoli, il popolo palestinese riuscì a costruire la sola autentica democrazia del mondo arabo, con l’eccezione, forse, del Libano. Nel gennaio del 2006, libere e corrette elezioni per il Consiglio legislativo dell’Autorità palestinese portarono al potere un governo guidato da Hamas. Israele, però, rifiutò di riconoscere il governo democraticamente eletto, sostenendo che Hamas non è nient’altro che un’organizzazione terroristica.

Gli Stati uniti e l’Unione europea si unirono a Israele nell’emarginare e demonizzare il governo di Hamas e nel cercare di farlo crollare negando le entrate erariali e gli aiuti umanitari. Si creò così una situazione surreale: una parte significativa della comunità internazionale impose sanzioni economiche non contro l’occupante ma contro l’occupato, non contro l’oppressore ma contro l’oppresso.

Come spesso è accaduto nella tragica storia della Palestina, le vittime furono incolpate delle loro stesse disgrazie. La macchina propagandistica di Israele ha diffuso con insistenza l’idea che i Palestinesi siano terroristi, che rifiutino la coesistenza con lo stato ebraico, che il loro nazionalismo non sia nient’altro che antisemitismo, che Hamas sia soltanto un branco di fanatici religiosi e che l’Islam sia incompatibile con la democrazia. Ma la verità è che i Palestinesi sono un popolo normale con aspirazioni normali. Non sono migliori né peggiori di altri popoli. Ciò a cui aspirano è soprattutto un pezzo di terra per sé su cui vivere dignitosamente e liberamente.

Come altri movimenti radicali, le posizioni di Hamas sono diventate più moderate con la salita al potere. Dal rifiuto ideologico contenuto nel loro statuto, sono passati alla pragmatica soluzione di compromesso dei due stati. Nel marzo del 2007, Hamas e Fatah formarono un governo di unità nazionale pronto a negoziare un duraturo cessate-il-fuoco con Israele. Israele, però, rifiutò di negoziare con un governo che includesse Hamas.


Continuò a giocare al buon vecchio divide et impera tra fazioni palestinesi rivali. Verso la fine degli anni ’80, Israele aveva sostenuto la nascente Hamas per indebolire Fatah, il movimento nazionalista laico guidato da Yasser Arafat. Adesso Israele ha iniziato ad incoraggiare i corrotti e plasmabili leader di Fatah a destituire i lori rivali politico-religiosi e a riprendersi il potere. Alcuni aggressivi neo-con statunitensi hanno partecipato al sinistro complotto per istigare una guerra civile palestinese. La loro intromissione è stata tra le maggiori cause del crollo del governo di unità nazionale e nel condurre Hamas a prendere il controllo di Gaza nel giugno 2007 per prevenire un colpo di stato di Fatah.

La guerra scatenata da Israele contro Gaza il 27 dicembre è stata l’apice di una serie di scontri e battaglie col governo di Hamas. Essa è però, in senso lato, una guerra fra il popolo palestinese e il popolo israeliano, perché la gente ha eletto il partito di Hamas. L’obbiettivo dichiarato della guerra è quello di indebolire Hamas e di fare sempre più pressioni affinché i suoi leader acconsentano a un cessate-il-fuoco alle condizioni di Israele. L’obbiettivo non dichiarato è quello di assicurare che i Palestinesi di Gaza siano considerati dal mondo solo come un problema umanitario, vanificando così la loro lotta per l’indipendenza e la creazione di un loro stato.

Il momento giusto per la guerra è stato determinato dall’opportunità politica. Le elezioni politiche sono in programma per il 10 febbraio e, nella corsa alle elezioni, tutti i principali concorrenti cercano di procurarsi l’opportunità di provare la loro durezza. Gli alti ufficiali dell’esercito scalpitavano per assestare un tremendo colpo a Hamas al fine di cancellare la macchia sulla loro reputazione provocata dalla guerra contro gli Hezbollah in Libano nel luglio del 2006. I cinici leader di Israele potevano contare pure sull’apatia e sull’impotenza dei regimi arabi filo-occidentali e sul cieco sostegno del presidente Bush in scadenza di mandato alla Casa bianca. Bush è subito corso a servizio degli Israeliani, scaricando la colpa della crisi su Hamas, ponendo il veto alle proposte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di un immediato cessate-il-fuoco e dando il via libera a un’invasione terrestre di Gaza da parte israeliana.

Come sempre, la potente Israele pretende di essere la vittima dell’aggressione palestinese, ma l’impressionante asimmetria di forza tra le due parti lascia poco spazio al dubbio su chi sia la vera vittima. Questo, infatti, è un conflitto fra Davide e Golia, ma al contrario, con la piccola e indifesa Palestina nel ruolo di Davide che affronta un Golia israeliano armato fino ai denti, spietato e arrogante. La risorsa della forza militare bruta è accompagnata, come sempre, dalla petulante retorica del vittimismo e dalla manfrina dell’autocommiserazione ricoperta di una pretesa superiorità morale. In ebraico si chiama sindrome di bokhim ve-yorim, “piangere e fottere".

Certo, Hamas ha la sua parte di colpe in questo conflitto. Privato del frutto della vittoria elettorale, davanti a un avversario senza scrupoli, ha fatto ricorso all’arma dei deboli, il terrore. I militanti di Hamas e della jihad islamica hanno continuato a lanciare razzi Qassam contro le colonie israeliane vicino a confine con Gaza finché l’Egitto non ha mediato un cessate-il-fuoco di sei mesi lo scorso giugno. Il danno provocato da questi rudimentali ordigni è minimo, ma l’impatto psicologico è immenso, tanto che i cittadini hanno preteso la protezione del governo. Date le circostanze, Israele aveva il diritto di difendersi, ma la sua risposta alla seccatura dei razzi è stata del tutto sproporzionata. Le cifre parlano da sole. In tre anni, dopo il ritiro da Gaza, undici israeliani sono stati uccisi dai razzi. D’altro canto, nel solo triennio 2005-2007, le Forze di difesa israeliane hanno ucciso 1.290 Palestinesi a Gaza, compresi 222 bambini.

Ma al di là delle cifre, uccidere civili è sbagliato. Questa regola si applica tanto agli Israeliani quanto ad Hamas, ma le cronache parlano di un’incontenibile e incessante brutalità verso gli abitanti di Gaza. Israele, inoltre, ha mantenuto l’embargo su Gaza dopo che entrò in vigore il cessate-il-fuoco, il che, secondo i leader di Hamas, vuol dire violare l’accordo. Durante il cessate-il-fuoco, Israele ha impedito le esportazioni dalla Striscia, violando manifestamente un accordo del 2005 e causando un violento calo delle possibilità di impiego. Ufficialmente, infatti, il 49,1 percento della popolazione è disoccupato. Ma al contempo Israele ha limitato drasticamente l’ingresso a Gaza di automezzi carichi di cibo, carburante, bombole di gas per uso alimentare, pezzi di ricambio per impianti sanitari e idrici, e medicinali. Mi risulta difficile capire come affamare e congelare i civili di Gaza possa voler dire proteggere i cittadini israeliani che vivono sul confine. Ma anche se fosse, sarebbe lo stesso immorale, una forma di punizione collettiva che è severamente proibita dal diritto internazionale.

La brutalità dei soldati israeliani fa il paio con la propensione alla menzogna dei suoi portavoce. Otto mesi prima che scoppiasse la guerra contro Gaza, Israele creò il Consiglio per l’Informazione nazionale. La sostanza dei messaggi alla stampa di questo organo è che Hamas ha violato il cessate-il-fuoco; che l’obiettivo di Israele è la difesa della sua popolazione; che le forze di Israele stanno facendo tutto il possibile per non fare del male ai civili innocenti. I velinari di Israele sono riusciti a trasmettere il messaggio. Ma, in sostanza, la loro propaganda non è altro che un insieme di bugie.

C’è un enorme divario tra la realtà delle azioni di Israele e la retorica dei suoi portavoce. Non è stato Hamas a rompere il cessate-il-fuoco, ma le Forze di Difesa israeliane. Il 4 novembre fecero un incursione a Gaza uccidendo sei uomini di Hamas. L’obiettivo di Israele non è solamente la difesa della sua popolazione, ma il rovesciamento finale del governo di Hamas a Gaza, mettendo il popolo palestinese contro i suoi governanti. E altro che cercare di non far del male ai civili: Israele è colpevole di bombardamenti indiscriminati e di un embargo ormai triennale che ha portato gli abitanti di Gaza, attualmente un milione e mezzo, sull’orlo di una catastrofe umanitaria.

Il precetto biblico dell’occhio per occhio è già abbastanza crudele. Ma la dissennata offensiva israeliana contro Gaza sembra seguire la logica dell’«occhio per ciglio». Dopo otto giorni di bombardamenti, con un bilancio di più di 400 Palestinesi uccisi contro quattro Israeliani, il governo guerrafondaio ha ordinato l’invasione di terra di Gaza, le cui conseguenze sono incalcolabili.

L’inasprimento dell’impiego dell’esercito non potrà far guadagnare a Israele l’immunità dal lancio di razzi da parte dell’ala militare di Hamas. Ad onta della morte e della distruzione che Israele ha inflitto loro, essi continuano la loro resistenza e continuano a sparare razzi. Si tratta di un movimento che glorifica il vittimismo e il martirio. Semplicemente: non c’è una soluzione militare allo scontro fra due comunità. Il problema del concetto di sicurezza di Israele è che esso nega persino la più elementare sicurezza all’altra comunità. C’è un solo modo per garantirsi la sicurezza, e non è sparare, ma discutere con Hamas, che si è più volte detto disposto a negoziare un cessate-il-fuoco duraturo con lo stato ebraico entro i confini di prima del 1967, un accordo che duri venti, trenta o addirittura cinquanta anni. Israele ha respinto l’offerta per la stessa ragione per cui ha rifiutato con sdegno il progetto di pace della Lega araba nel 2002, che è ancora sul tappeto: perché comporta concessioni e compromessi.

Questo breve excursus sulla cronaca di Israele degli scorsi quarant’anni non può che portare alla conclusione che esso è ormai diventato uno stato canaglia con «un gruppo di capi del tutto privo di scrupoli». Uno stato canaglia viola abitualmente il diritto internazionale, possiede armi di distruzione di massa e pratica il terrorismo, cioè l’uso della violenza contro i civili per scopi politici. Israele soddisfa tutti e tre questi criteri; le calzano a pennello. La vera mira di Israele non è una coesistenza pacifica coi vicini palestinesi, ma il dominio militare. Rende più grave gli errori del passato aggiungendone di nuovi e più disastrosi. I politici, come chiunque altro, sono certamente liberi di ripetere le menzogne e gli errori del passato. Ma non sono obbligati a farlo.

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