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Eutanasia e aborto in Irlanda, dal paradosso a sprazzi di buon senso

Di Massimo Maiurana

In Irlanda la forte influenza della Chiesa cattolica ha sempre impedito il varo di una legge che regolamenti veramente l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Un microscopico passo in avanti lo si è fatto poco più di un anno fa con il varo della Protection of Life During Pregnancy Bill, la norma che sull’onda della morte per negato aborto di Savita Halappanavar, ma anche a seguito di un’esplicita condanna della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ha introdotto la possibilità di interrompere una gravidanza nel caso in cui questa sia rischiosa per la salute della madre, e sempre che tre medici lo certifichino all’unanimità. Decisamente poco, tuttavia. Di fatto l’Irlanda rimane la cenerentola d’Europa in tema di diritti riproduttivi.

L’eccessiva restrittività della normativa irlandese ha di recente generato un altro nodo, che come tutti i nodi è alla fine giunto al pettine. Una donna ventenne, incinta e madre di due piccoli, a seguito dei traumi riportati in una caduta è stata dichiarata cerebralmente morta. I suoi familiari hanno quindi chiesto di spegnere le macchine che tenevano attivi i suoi processi biologici, ma la presenza del feto, unita all’assenza di chiare linee guida in merito, ha fatto sì che nessun medico abbia voluto rischiare un’incriminazione per procurato aborto. Il cadavere della donna, che essendo morta non poteva essere quindi considerata in pericolo di vita, rischiava di diventare a tutti gli effetti un’incubatrice in carne e ossa, il cui unico scopo sarebbe stato quello di tenere in vita il feto almeno fino alla 34^ settimana per poi tirarlo fuori. In un quadro così sconcertante e macabro è stato necessario rivolgersi all’Alta Corte di Dublino per capire cosa fare, con il rischio di dover ricorrere perfino alla Corte Suprema date le implicazioni costituzionali. Rischio fortunatamente fugato, perché i legali a difesa dei diritti della donna e del feto hanno anticipato che non si sarebbero opposti alla sentenza e perfino l’arcivescovo di Dublino ha dichiarato che non avrebbe obiettato nulla sull’eventuale decisione di staccare la spina.

 

La corte ha infine autorizzato lo spegnimento delle macchine. Le perizie hanno dimostrato che il feto era comunque già condannato perché l’ambiente uterino in cui si trovava era stato reso tossico dalle terapie a cui era sottoposta la donna, ma questa sembra non essere stata la ragione determinante. La corte ha infatti posto l’accento soprattutto sugli aspetti etici scrivendo che è sbagliato privare la donna “di una morte dignitosa e sottoporre suo padre, il suo compagno e i suoi giovani figli a inimmaginabili tormenti per un futile esercizio dettato unicamente dal timore di azioni legali contro i medici”. In altre parole, la legge che vorrebbe garantire il diritto alla vita per un essere umano che non esiste ancora, non consentendo interpretazioni oggettive a causa della sua vaghezza, finisce per generare situazioni paradossali in cui di fatto nessuno è realmente tutelato.

In un contesto così restrittivo come quello irlandese le parole espresse dall’arcivescovo Diarmuid Martin diventano melodia: «Una donna non è semplicemente un’incubatrice. La relazione che lega una donna a suo figlio è un rapporto affettivo, ed è chiarissimo che occorre quindi valutare l’età del feto, quali sono le sue possibilità». Parole sante, arcivescovo, parole sante. Che andrebbero utilizzate anche in un’accezione più estesa, perché le possibilità che ha il feto non sono solo legate alla probabilità che ha di vivere o morire ma vanno ben oltre, e il rapporto affettivo che lega una madre al proprio figlio è tutt’altro che scontato.

Ma siamo sulla buona strada e visto il momento attuale, di buoni propositi e speranze per il nuovo anno, un buon auspicio per il futuro sarebbe quello che si anteponga sempre la dignità delle persone reali davanti a quella presunta di chi persona lo è solo in potenza, dando piena attuazione alla legge 194 e limitando gli obiettori di coscienza nelle strutture sanitarie pubbliche. Ma anche che la si anteponga agli interessi di tutte le comunità, a maggior ragione di quelle a cui la persona non ha mai dato la sua adesione, cominciando per esempio col sancire che ogni individuo ha il diritto di chiedere che venga posta fine alla propria esistenza quando questa diventa insopportabile. La proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia promossa dall’Associazione Luca Coscioni insieme a Uaar e altri è ancora in attesa di essere discussa dal parlamento, chissà che il 2015 non sia l’anno in cui possiamo finalmente brindare alla riscossa dei diritti civili. Cin cin.

Foto: Giuseppe Milo, Flickr.

 

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