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India contro Bharat

Si chiama India, acronimo di Indian National Developmental Inclusive Alliance, e potrebbe diventare l’incubo di Narendra Modi e del Bharatiya Janata Party alle prossime elezioni politiche di primavera.

 E’ un’alleanza, ampia, anche troppo ampia, che riunisce da quest’estate ventisei gruppi d’opposizione, intenzionati a scalzare lo strapotere del Bjp sulle urne e sulla nazione che il partito hindu vuole chiamare Bharat. Il cartello s’è riunito per la fondazione a Patna, nel Bihar, nello scorso giugno. Un secondo appuntamento c’è stato nel Karnakta, sotto la supervisione di Sonja Gandhi, e ha deciso la formazione ufficiale. Quindi pochi giorni fa, mentre a Delhi fervevano i preparativi per il G20, i rappresentanti di India s’incontravano a Mumbai, ancora con Sonja e Raoul Gandhi, più il presidente di Shiv Sena, Uddahav Trackeray. Stilavano i punti base per coordinare una comune campagna elettorale comune, su cui c’è ancora tanto da capire. L’idea dell’unione è dirompente, visto che i contendenti s’accingono a confrontarsi con un peso massimo (nella consultazione del 2019 il Bjp superò di 100 milioni di voti il Partito del Congresso giunto secondo). Ma l’antica idea che l’unione fa la forza, deve fare i conti con la possibilità che la ‘macchina da guerra’ predisposta regga all’impatto, visto che l’eterogeneità e la varietà dei gruppi è amplissima. Il partito dei Gandhi ha avuto, anche in anni recenti, un’ampia emorragia di consensi per il modo untuoso e affaristico con cui il clan familiare gestiva il potere. Il bagno di folla compiuto nei mesi scorsi da Raoul con la marcia attraverso gli Stati della Federazione indiana (Bharat Jodo Yatra) ha rappresentato un tentativo di avvicinamento a umori, afrori, passioni, bisogni, desideri del popolo minuto e delle caste. Comunque la volontà sociale del ceto politico del Congresso, non può essere la visione propugnata da taluni partiti comunisti che aderiscono al cartello. Ce n’è più d’uno. Taluni governano o hanno governato degli Stati, come nel Kerala lo storico Communist Party of India, che ha quasi un secolo di vita.

Inoltre formazioni che hanno poco più d’un decennio di vita, come Aam Aadmi Party di Arvind Kejriwal tuttora primo ministro nel governo locale di Delhi, sono frutto delle massicce manifestazioni anti-corruzione del 2011, rivolte contro quel ceto dirigente cui la famiglia Gandhi appartiene (magari non direttamente Raoul ma mamma Sonia sì). Ecco l’ennesima contraddizione. Insomma i nodi sono vari e per poter convincere l’elettorato della bontà d’una coalizione che vuole (vorrebbe) ricondurre i rapporti interni sui binari di quella convivenza azzerata dall’esasperazione fondamentalista di settori del partito di governo, gli oppositori dovranno mediare e tollerarsi a vicenda. La scommessa è riuscire a farlo. Perché avvicinare il socialisteggiante Ashish Yadav di Samawadi Party al sulfureo esponente di Shiv Sena, Sanjay Raut, che non diversamente da tanti estremisti hindu lancia frecciate, non solo verbali, sui cittadini islamici chiedendone l’esclusione dal voto (sic) “I musulmani vengono usati come banche di voto, per questo è giusto che quel diritto venga allontanata” (sic) non si sarà impresa improba. Magari Raut si sarà ravveduto, magari no.

In realtà il suo partito si sostiene sul pilastro ideologico della razzistica hindutva, né più né meno che il Bharatiya Janata Party, con cui peraltro ha cooperato per un periodo, prima d’un divorzio politico dettato da interessi di potere, non da divergenze ideologiche. E aderire al listone d’opposizione da parte di Uddhav Thackeray, figlio di Bal Keshav il fondatore cinquant’anni fa di Shiv Sena, può essere finalizzato a uscire dall’isolamento al quale la politica del Bjp ha costretto voci minoritarie dell’induismo organizzato. A chi osserva dall’esterno appare strano che un’elezione, per quanto strategica sia, faccia avvicinare le strategie anticomuniste di Shiv Sena con gli attuali progetti del Partito Comunista dell’India. Gli annali raccontano che decenni addietro nell’area di Mumbai Shiv Sena scippò ai comunisti il controllo dei sindacati dell’industria tessile presente sul territorio. Ma le giravolte del clan Thackeray (anche costoro in fondo hanno stabilito un controllo familiare sul partito) sono state varie, e da rivali di comunisti e del Congresso oggi si propongono sodali. Come fanno quest’ultimi ad accettarne la compagnìa è il mistero che, forse, si spiega solo con l’anti “modismo”.

Enrico Campofreda

 

 

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