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Il welfare della Chiesa non deve prendere il sopravvento su quello pubblico

L’ufficio nazionale per la pastorale della sanità della Cei e la consulta degli organismi socio-assistenziali hanno realizzato un censimento delle “Opere sanitarie e sociali ecclesiali”. Alcune anticipazioni di questo censimento sono contenute nell’ultimo numero del settimanale “Il Sole 24 ore Sanità”, anticipazioni di cui ha riferito anche Roberto Turno in un articolo pubblicato dal quotidiano di proprietà della Confindustria.

Da queste anticipazioni emerge un quadro piuttosto interessante di quello che viene chiamato il “Welfare della Chiesa”.

Quali sono le principali caratteristiche delle opere sanitarie e sociali ecclesiali?

“Il motore, la prima forza trainante sono le parrocchie. Sono diffuse per la metà al nord, Lombardia in testa, ma nelle ‘regioni rosse’ per eccellenza, Toscana ed Emilia Romagna, l’offerta per abitante è maggiore che nel resto d’Italia. Possono contare su un esercito di 420.000 operatori, il 67% volontari no profit e solo 134mila laici retribuiti.

Ospedali grandi e piccoli, case di riposo per anziani e case famiglia, centri per disabili, servizi di ambulanza, fondazioni anti usura, strutture e mense per gli immigrati e per i poveri, comunità alloggio per mamme e bambini, centri per le famiglie di detenuti, comunità per la pronta accoglienza…

Una galassia di 14.214 servizi sparsi per il Paese, il 2% nati prima del Novecento, quando la Chiesa era leader incontrastata nell’assistenza socio-sanitaria, prima che lo Stato decidesse a fasi alterne di occuparsene come proprio compito e dovere”.

Il censimento è stato voluto per fare il punto sulla situazione attuale delle attività ecclesiali nel settore sanitario e sociale, anche per accertare la compatibilità di queste attività con i cambiamenti già intervenuti e con quelli che si verificheranno nel prossimo futuro nell’ambito del Welfare pubblico.

E la principale motivazione alla base di questi cambiamenti è rappresentata dalla necessità di ridurre il deficit e il debito pubblico, necessità che, peraltro, ha già influenzato e ancor più influenzerà in futuro lo stesso Welfare cattolico.

Particolarmente importante, nel censimento in questione è la seguente affermazione: “L’impressione è che si stia tornando a quel concetto di supplenza, allora ‘tollerata’ e spesso ideologicamente contrastata, che aveva caratterizzato il nostro sistema fino agli anni Ottanta”».

E la maggiore preoccupazione è quella di essere relegati a un ruolo di “supplenza del pubblico”.

E cosi si prosegue:

“Se il ruolo di supplenza del pubblico poteva avere un senso in un diverso quadro di ordinamento e di presenza (nel 1960) di una spesa pubblica pari al 2% del Pil e di una spesa per protezione sociale del 15%, lo è molto meno oggi con al spesa pubblica che assorbe più della metà del Pil e la protezione sociale più di un quarto”.

Di qui il pericolo fiutato dalla Cei, con tanto di non casuale rimando alla Costituzione (articoli 2, 4 e 118): “L’impressione è di essere davanti a un concetto distorto di sussidiarietà e a una utilizzazione del dovere di solidarietà strumentalmente dettati da esigenze di finanza pubblica e dalle inadeguatezze della pubblica amministrazione”

Quindi secondo Roberto Turno

“Un atto d’accusa neppure velato al sistema in atto. E a quello che potrebbe nascere dopo le riforme in itinere con la crisi che morde.

Ma anche a una burocrazia e a uno stato invadente nel quale non sempre la risposta ai bisogni socio-sanitari è il motore dell’attività e dei servizi pubblici.

Il censimento della Cei evidenzia intanto un radicamento diffuso e articolato nella società italiana. Col 62,3% di servizi socio-sanitari e sociali non residenziali, il 31,2% residenziali e solo il 6,4% dedicato specificamente all’assistenza sanitaria.

Con le parrocchie prime gestori (25,9%) soprattutto di servizi socio-sanitari o sociali non residenziali, seguite dalle associazioni di volontariato (21,1%) e dagli istituti di vita consacrata e dalle società di vita apostolica(11,1%).

Quasi due terzi delle opere cattoliche hanno meno di vent’anni, ma più della metà sono nate nell’ultimo decennio. Segno di bisogni sociali in crescita, di un’offerta pubblica che non ce la fa più e della crisi che soffia forte e che le opere religiose cercano di affrontare.

Ma con pecche che il rapporto non si nasconde: la massima diffusione al nord (48%), in particolare nel nord-ovest (26%), mentre nel sud e nelle isole, dove i bisogni sono maggiori, l’offerta è ancora troppo bassa (28%).

Anche la questione meridionale, chiarisce il rapporto della Cei, dovrà essere infatti uno dei punti di ripartenza dell’offerta socio-sanitaria cattolica.

Come la non autosufficienza, altro nervo scoperto del sistema pubblico. E come i dilemmi che pone, e che sempre più porrà il federalismo fiscale”.

E in seguito ai risultati del censimento in questione monsignor Andrea Manto, segretario dell’ufficio nazionale della Cei per la Pastorale della Sanità ha così commentato “La presenza diffusa delle opere religiose rappresenta un forte elemento di unità nazionale e di identità. Sono la via maestra per tutelare la salute in maniera sostenibile”.

Ma ha aggiunto: “Molto spesso le opere ecclesiali riescono a dare risposte là dove l’offerta dei servizi regionali è carente.

E nella gran parte dei casi, a parità d’offerta, costano meno del servizio pubblico e danno risposte riconosciute e apprezzate”.

Il censimento della Cei è estremamente utile soprattutto perché, con dati precisi, evidenzia l’importanza che ha assunto il Welfare cattolico in Italia, accresciutasi peraltro negli ultimi anni. Ma è auspicabile nel prossimo futuro un ulteriore incremento del ruolo delle cosiddette opere sanitarie e sociali ecclesiali? Io non credo che sia auspicabile. Ritengo infatti che i servizi pubblici nel settore sanitario e sociale siano essenziali, anche perché potrebbero garantire, in misura maggiore rispetto a quelli privati ed anche a quelli gestiti dalla Chiesa, il perseguimento dell’interesse generale. Non a caso ho usato il condizionale perché, come è noto, spesso, anche tramite i servizi pubblici, si perseguono interessi privati. Ma non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca. Si devono eliminare gli sprechi, anche le attività speculative, che contraddistinguono talvolta, purtroppo, i servizi pubblici, ma essi devono rimanere il perno del sistema socio-sanitario italiano. E’ possibile, tramite una vera “spending review”, tramite cioè una riqualificazione della spesa pubblica mirata soprattutto all’eliminazione degli sprechi, affrontare contemporaneamente i problemi del bilancio dello Stato e fare in modo che la qualità dei servizi socio-sanitari pubblici migliori sensibilmente. Le attività private, ed anche quelle gestite dalla Chiesa, potranno svolgere un ruolo importante, adeguatamente controllate da autorità pubbliche, senza però che il loro ruolo si accresca considerevolmente.

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