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Il tempo materiale di Giorgio Vasta (minimum fax, Roma, 2009)

Dalla sempre più grande minimum fax, il romanzo d’esordio di Giorgio Vasta, palermitano emigrato a Torino.

Sin dalle primissime pagine si capisce che Il tempo materiale, esordio lungo del palermitano Giorgio Vasta, è un libro importante. Importante come lo sono quei libri che osano, che non tentano di inserirsi in una scia o di strizzare l’occhiolino ai best seller del giorno prima.

 
Importante perché tenta di aprirsi una strada e lo fa scegliendo di utilizzare il linguaggio come un detonatore.
 
E’ un linguaggio che illumina, che modella, che definisce attraverso spirali. Un linguaggio che in virtù della sua forza generatrice diventa, in definitiva, il vero personaggio principale di questo libro.
 
E’ attraverso la lingua, ad esempio, che i tre giovanissimi protagonisti creano la loro autonomia, cercando di differenziarsi dal resto del mondo. Una lingua che è disciplina rigidissima, esercizio e studio, da cui è tagliata fuori ogni forma di ironia, vista come segno tangibile di rassegnazione:
 
“[…] a me l’ironia fa male. Anzi la odio. […] Perché ce n’è sempre di più, troppa, la nuova ironia italiana che brilla su tutti i musi, in tutte le frasi, che ogni giorno lotta contro l’ideologia, le divora la testa, e in pochi anni dell’ideologia non resterà più niente, l’ironia sarà la nostra unica risorsa e la nostra sconfitta, la nostra camicia di forza, e staremo tutti nella stessa accordatura ironico-cinica, nel disincanto, prevedendo perfettamente le modalità di innesco della battuta, la tempistica migliore, lo smorzamento improvviso che lascia declinare l’allusione, sempre partecipi e assenti, acutissimi e corrotti: rassegnati.”
 
Oppure le forme dialettali, anch’esse eliminate dal loro universo linguistico, simbolo di un’Italia caciarona e approssimativa che ha a che fare con l’impulso nazionale a tradurre ogni cosa in forme familiari costringendo tutto a diventare provincia.
 
“Il palermitano è una lingua esclamativa. Accade qualcosa, un fenomeno qualsiasi, e il palermitano comincia subito il suo assedio. Spesso è una sola frase ripetuta modificando l’intonazione, in litania dinamica, rilanciando, rincarando, così che il fenomeno si riduce alla sua più originaria e autentica natura di scandalo. Ma sempre nella minaccia, nella rabbia. Perché per il palermitano dialettale ogni fatto è orrore”.
 
Il prezzo che si deve pagare è il rischio del ridicolo, come ridicoli sono questi tre ragazzini di nove anni che parlano una lingua assolutamente non loro e che subiscono la fascinazione delle Br del rapimento Moro:
 
“[…] nella loro lingua c’è qualcosa che mi mette in imbarazzo, una pena per il dogmatismo imparaticcio, per l’enfasi puerile. Eppure io per primo sono enfatico. Non posso non esserlo perché so, come lo sanno le Br, che l’enfasi è l’unico modo per accedere alla visione, alla profezia della storia. Certo si diventa ridicoli, ma non ci sono alternative: tra l’ironia e il ridicolo scelgo il ridicolo. […]il ridicolo è il costo da pagare al tragico.”
 
Tutta la storia si svolge in un luogo e in un tempo ben determinato, la Palermo del 1978, ma si ha come l’impressione che la partita, in realtà, la si giochi altrove.

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