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Il ritorno alla lira: una scelta tra la Cambogia e le stelle

"La nostalgia per la Lira e per le sue svalutazioni competitive, che sente una parte del mondo imprenditoriale, è un riflesso di questo conservatorismo culturale; di questo immobilismo, prima di tutto, intellettuale".

Tra le cose che più colpiscono delle città italiane, chi viene dall'estero, vi è la scarsa presenza di ristornati etnici (con l'eccezione degli onnipresenti cinesi) e la quasi totale assenza di fast-food appartenenti alle grandi catene multinazionali; c'è qualche McDonald, ma, per sommo dispiacere dei miei familiari, manca KFC, non c'è Pizza Hut e non si trovano i gelati di Baskin-Robbins e le ciambelle di Dunkin'Donuts. Manca, e non saprei davvero in quale altro paese sviluppato sia assente, addirittura Starbucks.

E' un'anomalia di cui sono orgogliosissimo; la dimostrazione lampante della nostra straordinaria capacita di resistenza alla penetrazione culturale, oltre che del fatto che abbiamo così tante cose buone che non sentiamo il bisogno d'importarne d'altre.

I gelati e la pizza, poi, sono nostre invenzioni e il caffè, buono come lo prepara il nostro bar sotto casa, non lo fa nessuno.

Purtroppo siamo altrettanto conservatori anche in altri campi; i nostri comportamenti immutabili si compongono in una società che appare completamente ingessata.

La nostalgia per la lira e per le sue svalutazioni competitive, che sente una parte del mondo imprenditoriale, è un riflesso di questo conservatorismo culturale; di questo immobilismo, prima di tutto, intellettuale.

Furono, quelle svalutazioni, un espediente che ci inventammo, non saprei quanto intenzionalmente, per continuare ad utilizzare, ben oltre la usa data di scadenza, il modello di sviluppo che avevamo adottato durante la ricostruzione post-bellica.

Negli anni 50 e, già con qualche rallentamento sul finale del decennio, negli anno 60, l’Italia era cresciuta vertiginosamente, esportando prodotti di mediocre qualità a pezzi bassi e bassissimi, grazie ad una forza lavoro che era la meno pagata tra quelle dei paesi industrializzati. Fummo, in quei decenni, i cinesi d’occidente.

Nel 1970 lo statuto dei lavoratori non fece altro che riconoscere l’avvenuto ricongiungimento dell’economia italiana al gruppo di quelle dei paesi più sviluppati; il nostro costo del lavoro divenne comparabile a quello che dovevano sostenere i nostri concorrenti: forse la metà di quello tedesco, ma non tanto basso da garantire, da solo, la competitività delle nostre imprese.

Avremmo dovuto aumentare la nostra produttività, investire in ricerca ed innovazione; entrare in nuovi mercati e concentrarci sulla fasci più alta di quelli in cui eravamo già presenti. Le nostre aziende, in altre parole, avrebbero dovuto produrre beni di qualità tale da giustifica i prezzi più alti che imponeva loro il dover, finalmente, pagare decentemente i propri lavoratori.

Le svalutazioni della Lira, invece, gli consentirono di restare sui mercati continuando a fare esattamente, o quasi, quel che già facevano, grazie ad un abbassamento artificiale del costo della manodopera.

Chi auspica un ritorno a questa situazione non ha compreso bene quanto sia cambiato il mondo negli ultimi decenni.

Anche se fosse davvero possibile tornare alla Lira senza andare incontro ad un immediato disastro, anche se non dovessimo pagare il petrolio cento dollari il barile e fosse possibile ri-denominare il nostro debito in lire, la strada delle svalutazioni competitive ci è preclusa per sempre, a meno che si abbia in mente un modello di società come quelli che siamo abituati ad associare a paesi in cui, per solito, ci guardiamo bene dall’andare anche solo in ferie.

Se non vogliamo cambiare il nostro modo di fare economia, e vogliamo affidare la nostra competitività solo alla riduzione dei salari reali (questo producono le svalutazioni), dobbiamo comprendere che oggi non si tratterebbe di pagare i nostri lavoratori un po’ meno degli olandesi o dei francesi (come peraltro già avviene), ma di pagarli, al massimo, quanto i cinesi o, meglio ancora quanto i cambogiani o i vietnamiti.

L’unica soluzione realistica che abbiamo davanti è quella di fare ora quanto avremmo dovuto fare quaranta anni fa; dobbiamo, in mille modi, fare innovazione.

Un obiettivo che non possiamo neppure sognarci di perseguire se non mutiamo, prima d'ogni altra cosa, i nostri rapporti comportamenti; il familismo e il nepotismo caratteristici della nostra società possono andare bene, per quanto ingiusti, se l’obiettivo è il mantenimento dell’esistente (qualificano gli ancien régime di tutte le epoche e di tutti i paesi) ma sono una pietra al collo a qualunque speranza di modernizzazione.

Anziché sognare un ritorno alla Lira, dovremmo augurarci la fine delle mille conventicole che fanno della nostra società la più ingiusta dell’Occidente dovremmo lavorare perché nel nostro paese sia riconosciuto, sempre e solo, il merito.

Perché i nostri figli possano pensare, senza essere dei poveri sognatori, di poter provare a raggiungere qualunque traguardo.

Di poter davvero arrivare, con tanto impegno, fino alle stelle.

Commenti all'articolo

  • Di Sandro kensan (---.---.---.16) 20 dicembre 2011 16:08
    Sandro kensan

    Parole semplici per un discorso complicato. Condivido pienamente.

  • Di (---.---.---.44) 20 dicembre 2011 19:00

    Non sono d’accordo. Meglio la lira. Adesso non si teniamo sovranità monetaria

    • Di (---.---.---.46) 20 dicembre 2011 19:35

      ti ho votato, ma soltanto per errore.
      e cosi’, per rimediare, ti rispondo:

      1) quando l’adozione dell’euro ha fatto scendere i tassi di interesse e i costi di importazione, non ricordo che nessuno abbia protestato: non si possono prendere i vantaggi e respingere gli svantaggi.

      2) e’ vero che con l’ingresso nell’euro si e’ persa sovranita’ e si puo’  dire che si sarebbe preferito non farlo: e’ un’opinione rispettabilissima. 

      Ma non si puo’ dire che se ne deve uscire, perche’ si dice soltanto una scemenza: sarebbe una catastrofe. 

      I capitali fuggirebbero e chi ha, ad esempio, un mutuo con cui si e’ comprato casa, si ritroverebbe con un debito in euro e stipendio o guadagni in lire: perderebbe la casa, cosi’ come fallirebbero tutte le imprese che adesso hanno debiti in euro con banche e fornitori.

       

      Nell’articolo e’ ben spiegato come l’Italia non possa che regredire producendo merci arretrate, servizi arretrati e abbassando i costi del lavoro con le svalutazioni. Ci vuole iniziativa, intraprendenza e intelligenza: oggi sono tutte merci rare, con tutti i cervelli fuggiti all’estero.

  • Di (---.---.---.135) 24 dicembre 2011 16:28

    e se deve succedere che succeda!!!


  • Di (---.---.---.135) 24 dicembre 2011 16:40

    gli economisti dicono che nn conviene? e allora sarà un affare!!


  • Di (---.---.---.42) 25 dicembre 2011 10:36

    Nella prima pagina del Financial Times, Lorenzo Bini Smaghi -membro del comitato esecutivo della BCE (fino al 10 novembre 2011) ed esponente della notoria Scuola di Chicago di Milton Friedman- ha nei giorni scorsi affermato che “è importante che la BCE agisca con decisione. Non escludo un intervento più energetico sul mercato dei titoli dell’Eurozona, magari bloccando i tassi d’interesse di quei titoli o lo spread coi titoli tedeschi” ed inoltre che “è inutile nasconderci dietro le regole per evitare di agire (…) se c’è un pericolo di deflazione e recessione economica la BCE deve iniettare fondi nel sistema”. Invece il presidente della BCE, Mario Draghi, ha categoricamente escluso, su volere della Germania, entrambe queste opzioni, di fatto incoraggiando il collasso dell’Eurozona che Berlino cerca ostinatamente per i propri profitti. Non per nulla, proprio un membro tedesco del comitato esecutivo della BCE, Jürgen Stark, si è dimesso pochi giorni fa in un’isterica tirata contro gli attuali miserrimi acquisti di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea. Se un economista del calibro di Bini Smaghi se ne esce con parole di rottura così chiare rispetto alla posizione di Mario Draghi, questo significa come minimo che alla BCE regna il panico per la linea di Mario Draghi al servizio dell’opzione tedesca di politica monetaria europea. Al suo connazionale Bini Smaghi è stata affidato l’allarme, che è stato prontamente raccolto dai mercati, che infatti hanno riportato il tasso sui BTP italiani a quasi il 7% (livello insostenibile a lungo termine). Gli interventi dell’austero Monti (rigorista, sostenitore della metafora della cicala e della formica piuttosto che della metafora keynesiana del potere dei debitori!) si rivelano dunque inconsistenti nei confronti dei mercati finanziari: non doveva essere Monti a riportare i tassi sui BTP a livelli accettabili? Perché i Giavazzi, Mauro e Scalfari non ci spiegano come mai siamo ancora al 7%? Inoltre è trapelata la seguente notizia (fonte il Wall Street Journal), che non può più lasciare incertezze: la Swift, che è l’agenzia belga che gestisce i codici elettronici per le transazioni finanziarie (codice Swift, Iban, eccetera) è stata contattata da due banche di “stazza globale” che le chiedevano di fornirgli i vecchi codici per i sistemi di gestione delle vecchie valute europee, cioè Drakme e Lire. Cioè: diteci i codici per tornare a scambiare Drakme e Lire nei pagamenti. Dunque le mega banche si stanno preparando alla nostra uscita dall’Euro, al tracollo dell’Eurozona, adesso, oggi. Inoltre il governo britannico ha dato ordine alle sue forze di sicurezza di preparare l’evacuazione di emergenza dei cittadini inglesi da Spagna e Portogallo, nel caso di “una implosione delle banche” di questi due Paesi. Ancora: i tassi sui titoli di Stato britannici a 10 anni hanno toccato nei giorni scorsi il minimo storico dal 1890 (non dal 1980, ma proprio dal 1890!). Mettiamo queste notizie insieme: chi sa le cose sa che l’Euro tracolla in (almeno) Italia e Grecia; chi sa le cose si avventa sui titoli di Stato della Gran Bretagna, che ha moneta sovrana, e se ne frega dell’enorme debito pubblico inglese (149,1% del PIL, fonte The Office for National Statistics UK) e li compra mentre si liberano dei nostri. Il governo inglese vede crollare i tassi che paga (per loro fortuna), mentre i nostri schizzano alle stelle (per nostra rovina). Ancora: le grandi banche francesi sono fallite, sono già fallite, perché chi sa le cose sa che la loro esposizione al debito italiano e greco è enorme, impossibile da saldare per Italia e Grecia con la moneta Euro. Le banche francesi si trascineranno le italiane, poi le tedesche, le austriache e poi tutto il resto. Per salvare le banche occorrerebbe un “Quantitative Easing” (un salvataggio fatto dalla Banca Centrale Europea a forza di denaro immesso nelle riserve delle banche fallite) nell’ordine di dieci volte i miseri 489 miliardi di Euro che Draghi gli ha messo a disposizione (non sarebbero però soldi dei contribuenti, ma semplicemente denaro inventato dal nulla dalla BCE). Ma salvare le banche è inutile, perché anche se le banche si ritrovassero con le riserve piene di soldi, non tornerebbero a prestare ad economie ridotte a straccioni dalle politiche di austerità che ci hanno imposto. Risultato: le banche ci fanno tracollare sia che le si salvi, sia che non lo si faccia e le si lasci fallire. A fronte di questo, Mario Draghi ha ribadito il suo NO al salvataggio dei titoli di Stato dei Paesi come Italia e Grecia: “La scorsa settimana, la Bce ha praticamente azzerato l’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario” (fonte Il Sole 24 Ore). Oppure (in alternativa ed in contrasto con Draghi) la BCE compra titoli dell’Eurozona, sborsando 5 o 10 mila miliardi di Euro, non le poche centinaia di miliardi come ora e questo tamponerà la situazione (il che non dura). In quanto il dramma è l’Euro in sé. E’ l’EURO! Marianna Vitiello

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