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Il naufragio di un Venerdì Santo: italiani brava gente

Alessandro Leogrande fa parte di quella non cospicua schiera di scrittori che intendono l’arte del racconto come lo svolgimento non di un esercizio meramente estetico, di puro piacere, ma piuttosto di approfondimento conoscitivo - non solo cronachistico evidentemente – delle zone più oscure del nostro paese.

Non credo gli dispiaccia apparentarsi insomma ad autori come l’argentino Rodolfo Walsh autore di Operazione Massacro del quale egli stesso ha curato la prefazione di un’edizione recente. Un classico del genere non-fiction, o new journalism, come veniva chiamato al tempo (tenendo conto chessò di Talese, o Capote…).

Autore anche dell’inchiesta micidiale Uomini e Caporali sullo sfruttamento schiavistico della manovalanza straniera nel Sud, Leogrande si cimenta ora con un’altra storiaccia: Il Naufragio edito da Feltrinelli; il merito maggiore dell’autore è proprio dimostrare come in realtà anche gli eventi peggiori di questi anni siano scritti in un tessuto politico-culturale che li ha resi possibili.

Quanti di noi ricordano quel che accadde nel tardo pomeriggio del Venerdì Santo del 1997 in pieno Adriatico, nel periodo più caldo del dramma albanese, ben successivo a quello della fine del regime comunista (in Italia, forse gli stessi che ricordano questa storia, sanno anche che i rimanenti, la maggioranza, serbano memoria solo per gli eccidi dei comunisti)? Il piccolo paese era allora nelle mani di Berisha - Leogrande ricostruisce in un disegno essenziale quel periodo, e il clima. La vera e propria guerra civile in atto - una situazione dalla quale in migliaia cercarono di fuggire.

Ma qualcuno da questa parte non era dello stesso avviso. Millantava crediti di profonda religiosità verso le autorità vaticane (e questo non era proprio una novità, ma sempre la solita aggravante rispetto a un tribunale della giustizia che questo paese non riesce a permettersi). Le parole della signora Pivetti (Irene), ex presidente della camera secondo la quale gli albanesi bisognava “ributtarli a mare” erano credo intelligibili anche a un bambino, ma non al Vaticano, né agli elettori rimasti tali (quelli della Lega non i soli, evidentemente).

Il comando della squadra navale emanò un provvedimento che prevedeva ''azioni cinematiche di disturbo e di interdizione'' (lo chiamano harassment) che rese la tragedia inevitabile: lo speronamento della nave Kader i Rades, albanese, partita da Valona da parte di un'unità della marina italiana, la corvetta Sibilla.

Ne morirono 57, altri 24 non furono mai più trovati. Poiché certa umanità beghina si commuove solo alla locuzione invalsa nel giornalismo straccione, ebbene sì, fra quei disperati c’erano anche “donne e bambini”. Ne restarono in vita 34. Una strage immonda? Credo si possa definire così. 

Intanto Silvio Berlusconi, il giorno dopo la tragedia, pianse davanti alle telecamere, commosso: ''Sono cose indegne di noi e noi dobbiamo reagire a questo”. Difatti, promise ai profughi di ospitarli a casa sua e regalò loro orologi di cui sentivano un disperato bisogno, una volta tornato al governo, passata l’italica commozione - il genere ha una sua specificità, è inutile chiedersi quanto fingono: in quel momento lì, sono persino capaci di crederci - superando nel gradimento della chiesa la Lega brutta e cattiva e persino Casini che diceva con voce forte e chiara che ai gommoni albanesi bisognava sparare…

Assieme ai suddetti e all’ineffabile Fini (un caso umano prima che politico) varò una serie di leggine mica da ridere per impedire che i profughi di mezzo mondo “invadessero” l’Italia - cosa che ci avrebbe reso felici perché sfido chiunque a ritenere un qualsiasi mullah meno presentabile dell’ex ministro Ignazio La Russa.

Leogrande ricorda tutto, restituisce tutto, compresa la difficoltà estrema di indagare, la capacità in cui gli italiani sono maestri di insabbiare, occultare, far sparire le prove. Chiama a raccolta testimonianze - quella del sopravvissuto Bardosh, all’inizio del libro, lo vale tutto intero.

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