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Il massacro in Siria e le delicate relazioni fra "oriente" e "occidente" che ruotano attorno

Aumenta la pressione della comunità internazionale sul regime siriano di Bashar al-Assad e, con essa, la febbre della già calda zona mediorientale. Il termometro diplomatico ha infatti registrato un surriscaldamento significativo dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni.

Partiamo innanzitutto dall'allarmante numero delle vittime che da metà marzo, come comunicato dall'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), è ormai giunto a 2.059 - 391 farebbero parte dell'esercito siriano.

Nonostante la repressione le proteste sunnite contro gli 11 anni del governo sciita di Assad continuano ormai da quasi cinque mesi, ispirate e trainate dalle rivolte egiziane e tunisine.
 
Particolarmente violenta è stata la risposta del regime nei giorni scorsi: Assad ha inviato truppe e mezzi militari per sedare i rivoltosi di Hama, nella Siria centrale, mentre domenica l'esercito ha sferrato un'imponente offensiva nell'est della regione, contro la città di Deir al-Zor.
 
In seguito a questi ultime sanguinolente repressioni anche Al-Azhar - la massima autorità teologica sunnita, finora prudente nel pronunciarsi per evitare di far ulteriormente degenerare la situazione - si è visto costretto a denunciare dal Cairo lo spargimento di sangue che sembra ormai aver superato ogni limite.
 
Altre importanti reazioni sono state quelle di Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein che hanno deciso di richiamare i propri ambasciatori a Damasco. "Quanto sta succedendo in Siria non può in alcun modo essere considerato un atto in linea con i precetti religiosi" queste le dichiarazioni da parte del re saudita Abdullah, preoccupato che il vento primaverile possa giungere anche a Riad. Anche la Lega Araba - che rappresenta ben 22 stati mussulmani - e il Consiglio di Cooperazione del Golfo si sono espressi per uno stop alle violenze.
 
Aldiquà dei Dardanelli, nonostante la preoccupante situazione finanziaria, non si smette di osservare attentamente la questione siriana. Berlusconi e Obama, alle prese con l'imperante crisi economica e le bizze speculative dei mercati, si son cercati telefonicamente per confrontarsi sull'argomento, ribadendo la condanna nei confronti della repressione violenta del regime.
 
La grande novità di questi giorni, però, è l'out-out della Turchia che, stanca della crescente violenza nei pressi dei confini meridionali del paese, ha per la prima volta espresso una condanna netta e risoluta contro Damasco e si è mossa sul fronte diplomatico.
 
Il ministro degli esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu è arrivato ieri a Damasco in visita ufficiale per unirsi ai numerosi appelli occidentali, arabi e regionali e comprendere se e come il regime siriano intenda metter fine alla repressione militare delle proteste popolari.
 
Anche se il primo ministro turco, Tayyip Erdogan, ha parlato della rivolta in Siria come di una questione interna per la Turchia, con la quale condivide 850 chilometri di frontiera - generosa è stata l'assistenza offerta dal paese alle migliaia di profughi che hanno passato il confine per cercare di sfuggire alle rappresaglie dell'esercito -, l'intervento del ministro degli esteri turco non può che assumere un'importanza strategica che va aldilà delle relazioni bilaterali tra i due Paesi.
 
Quella in Siria non è soltanto una tragedia unicamente araba o islamica. Dietro al dialogo fra Turchia e Siria si staglia l'annoso iato fra Iran e USA, fra il mondo arabo in prevalenza sciita e l'intero blocco "occidentale" facente capo alla Nato, di cui la Turchia è appunto parte integrante e spartiacque geo-politico.
 
Per fortuna anche la Russia questa volta sembra non remare contro. Il presidente Dmitry Medvedev ha fatto appello a Bashar al-Assad affinché porti avanti le riforme chieste dal popolo e prenda accordi propri oppositori, minacciando un "cupo destino" per il regime nel caso ciò non dovesse avvenire al più presto.
 
Il polso della situazione - estremamente delicata e perfettamente al centro dello scacchiere internazionale- potrebbe sfuggire di mano da un momento all'altro, si raccomanda, quindi, nonostante l'attenzione venga costante richiamata da crisi economica e scontri "di classe" delle grandi metropoli europee, di tenerla sott'osseravazione costante.

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