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Il drammatico imbroglio della libertà e della democrazia

Il secolo scorso ha sancito la fine delle due grandi dittature, quella nazifascista e quella comunista. Da allora si è ricominciato a discutere ovunque di libertà, quasi con la stessa insistenza e pervicacia dei nostri nonni, inaugurando così una nuova epoca caratterizzata dal “liberalismo”: vale a dire da quel che A. Gide definiva “la virtù più sospetta e la meno praticabile”. Proprio per questo, la totalità dei politicanti che infesta l'odierno proscenio socioantropologico non soltanto nazionale, reitera in maniera monotona e quotidiana quanto sia ameno vivere nel suo singolare mondo liberale e democratico, il quale si pone come conseguenza in sistematica antitesi con le promesse elargite dai partiti avversi.

L'aspetto principale di questo paradosso, si coglie nel fatto che tutti costoro siano stati, fino a quando la tendenza era ancora in voga, o comunisti o fascisti o democristiani. Invece oggigiorno, per una sorta di miracolo, sono andati tutti incontro a una straordinaria metamorfosi capace di renderli tutti democratici, tanto a destra quanto a sinistra, e, ancor più, cattolici. Dimentichi soltanto del particolare che, nel corso dei secoli, il cattolicesimo abbia significato soprattutto oppressione, abuso e dispotismo. Questo, dal momento che la maggioranza della gente sia propensa a credere nella menzogna quasi fosse il Vangelo. “Le masse – scriveva Hitler nel Mein Kampf – cadranno vittime più facilmente di una grossa menzogna che di una piccola, oltretutto detta per primi”. La drammatica verità di questo assunto, la verifichiamo quotidianamente e soprattutto in questo periodo, nel quale una casta di nominati sta affamando milioni di persone al solo scopo di avvantaggiare gli speculatori finanziari.

L'attuale Presidente del Consiglio, Mario Monti, ha ricevuto nel 2005 il premio della Friederich August von Hayek Foundation. Per coloro che ancora non lo sapessero, è sufficiente ricordare che von Hayiek sviluppò una ideologia ferocemente antitetica rispetto al concetto di Stato. Nella motivazione del riconoscimento attribuito al capo dell'attuale governo, si legge:

“Onoriamo oggi un uomo, Monti, che è stato fedele nelle parole e nei fatti ai principii di Friederick August von Hayek. La sua vita, il suo lavoro e la sua personalità, non potrebbero essere meglio caratterizzati e onorati se non da un premio che porta il nome del grande economista Friederick August von Hayek”.

Proprio come osservava Hitler, gli italiani hanno accettato alla direzione dello Stato un suo acerrimo nemico. Con i risultati che per fortuna sono sotto gli occhi di tutti. Così come il primo convinceva la gente ad andare a farsi uccidere per le sue folli idee, allo stesso modo l'attuale Presidente del Consiglio e i suoi spalleggiatori stanno convincendo gli italiani a spogliarsi di ogni bene per rimpinguare le finanze degli speculatori. La storia si ripete, ma a quanto pare inutilmente, visto che la sua drammatica caratteristica pare sia quella di reiterare sistematicamente gli errori pregressi.

Un anno prima, nel 2004, lo stesso Presidente del Consiglio, ha ricevuto la “Medaglia Schuman”. Nella circostanza si è così espresso il prof. Alain Parguez, dell'Università di Besancon ed ex consigliere di Mitterrand, a Milano il 12 maggio dello stesso anno:

Schuman era amico di Salazar, di Mussolini e di Pio XII. In un discorso del 1935 all'assemblea cattolica francese, Schuman disse che bisognava abolire leggi infami repubblicane, ristabilire la libertà religiosa e negare sia la scuola laica che lo stato laico. Egli avrebbe dedicato i suoi sforzi a costruire una Unione Europea così”.

"Risulta pertanto evidente la continuità ideologica del Presidente Monti con i più acerrimi nemici della funzione pubblica. Perciò appare sempre meno comprensibile il suo ruolo nell'odierno proscenio socio politico. Oggi, tanto lui quanto coloro che subdolamente lo fiancheggiano, sono impegnati nell'assolvimento del compito di disgregazione della democrazia e della sovranità politica ed economica nazionale. Costui disprezza il concetto di Stato, riponendo piena fiducia nell'operato delle élite".

A proposito dello Stato sociale, così si esprimeva Hayek:

“Fornire agli indigenti e agli affamati qualche forma di aiuto, ma solo nell'interesse di coloro che devono essere protetti da eventuali atti di disperazione da parte dei bisognosi”.

Riguardo l'altro invalso luogo comune parimenti in voga, quello della democrazia, sono sufficienti due semplici considerazioni per coglierne la flagrante vacuità: la prima è che mai nella storia si sia realizzata una compiuta democrazia; la seconda, che si pone poi a fondamento della prima, richiama il cosiddetto “Teorema dell'impossibilità”, valso a K. Arrow il premio Nobel per l'economia, il quale ne sancisce la sostanziale inattuabilità.

Sulla democrazia, Hayek si dichiarò “a favore di uno Stato minimo, ma anche di uno Stato dittatoriale che imponesse le leggi dell'ordine supremo al popolo ignorante”.

Sulla spesa statale, lo stesso riteneva che “distruggendo ogni accesso dello Stato alla moneta si sarebbe finalmente abolita ogni forma di spesa pubblica”. Proponeva perciò “l'abolizione completa del monopolio statale sull'emissione della moneta, per permettere solo alle banche private di creare denaro in libera competizione fra loro”. Così, avrebbe “abolito il Tesoro nazionale e il bilancio dello Stato”. Avrebbe cioè decretato “l'abolizione dello Stato in sé”.

Hayek si rendeva così promotore di uno spietato darwinismo sociale. Per lui “ogni singolo aspetto del vivere comune, inclusa la morale, doveva essere frutto di una lotta spontanea, e mai di una pianificazione democratica dello Stato. Niente tutele per le minoranze, per i deboli, assolutamente no dello Stato per il bene pubblico, trionfa solo il meritevole, il forte, in assenza completa di una qualsivoglia funzione pubblica”.

Attualmente, la verità non viene più concepita come coerenza e come conformità con una regola. Il suo concetto dovrebbe tradurre un modo di essere, e non solo di pensare. Lo stesso P. Pilato (Vangelo di Giovanni, XIII, 33-39), si poneva questo inquietante interrogativo: “Ti éstin alétheia”. Vale a dire: “Che cosa è la verità?” Egli si appellava alla “alétheia”, la cui radice riporta a “a-lanthano”, che vuol dire non nascosto, reso palese e perciò svelato. Il processo semantico della verità come disvelamento, implica nella presa di coscienza che la sua messa a nudo offuschi la mente, proprio come quando gli occhi siano colpiti da una luce troppo intensa e perciò abbagliante, per cui si renda necessario schermarla. Perciò essa viene ri-velata: ossia viene nascosta di nuovo, proprio per proteggerla. Ed è questa l'ulteriore riprova del fatto che alla gente la verità non debba esser mai detta completamente. “Amico mio, la verità autentica è sempre inverosimile....Per rendere la verità più verosimile, bisogna assolutamente mescolarvi un po' di menzogna”. Così scriveva a ragione Dostoevskij nella sua opera “I demoni”. Siamo perciò di fronte ad una dinamica inerente ai processi cognitivi, nel senso che la conoscenza non venga a porsi come metodica di accertamento di qualsiasi fenomenologia, bensì assurga a procedimento di descrizione o di calcolo e quindi controllabile sia con gli organi di senso, sia con strumentazioni che ne consentano riproducibili conferme.

Donde, la domanda: “L'errore, e non il falso, cosa è?” L'assenso dato a una proposizione falsa, cosa è? Perché se non ci si pone davanti qualcosa che vediamo e che dichiariamo in un certo modo, non può esserci la conoscenza e neppure l'errore?

Chuang Tzu sognò di essere una farfalla e al risveglio si domandò: ”Sono un uomo che sogna di essere una farfalla o una farfalla che sogna di essere un uomo?” Anche Eraclito, ricordava che “la natura primordiale ama occultarsi” e che “la trama nascosta è più forte di quella manifesta”. Il guaio è però che, come osservava Kant, la nostra esperienza del mondo non è mai pura e diretta, ma viene modificata dalle strutture e dai comportamenti della nostra mente. Per cui le “forme dell'intelletto” non traducono tutta la realtà, ma soltanto quella parte di essa che possa essere sottoposta all'indagine scientifica e che si rende perciò verificabile.

Però come spesso succede, non fu un filosofo a impostare correttamente la questione. Lo fece V. Pareto nel suo Trattato di sociologia generale: “Veramente, la sorte capitata al termine libertà è assai comica: in molti casi esso significa ora precisamente il contrario di ciò che significava cinquant'anni fa; ma i sentimenti che fa nascere rimangono gli stessi, e cioè esso indica uno stato di cose favorevole a chi ascolta. Se Tizio vincola Caio, questi chiama libertà il sottrarsi a tali vincoli; ma se poi, a sua volta, Caio vincola Tizio, egli chiama libertà il rafforzare tali vincoli; in entrambi i casi il termine libertà suggerisce a Caio sentimenti gradevoli”.

La verità si propone pertanto mediante allegorie, immagini e similitudini, affinché gli occhi e le orecchie possano percepirla soltanto attraverso i simboli che ciascun individuo reca in sé dei singoli eventi. In greco si parla di “sunballo”, che vuole appunto significare ricongiungere, mettere insieme, come per far combaciare i due frammenti di un oggetto spezzato. Pertanto, ciascun individuo rappresenta una sorta di sunballo: è come un dipinto riflesso in uno specchio ed il sunballo esprime il segno di riconoscimento che ricerca il suo altro da cui è separato.

La società odierna è dominata dalla economia liberale, la quale si propone come l'ideale modello sociale, addirittura migliore di quello anticipato da Platone. Forse proprio per questo alletta i governanti: per la sua assoluta inattualità e ineseguibilità, oltre che per la sua inverosimile bellezza, e quindi per la sua assurdità e insensatezza. In questo contesto, i medesimi hanno inoltre stabilito come discutere di alcune fattibili libertà, intendendo come tali quelle eseguibili soltanto da loro e non da tutti gli altri. A queste illusorie libertà appartengono la libertà di cura, dell'istruzione, dell'informazione, tanto per ricordarne soltanto alcune, in modo da abbracciare pressoché interamente l'ambito dell'autodeterminazione della scelta. Non è infatti accettabile, secondo quella linea di principio, che una persona possa essere condizionata o persino privata della possibilità di scegliere il modello preferito in seno a questi domini fondamentali.

Eppure, sarebbe sufficiente guardarsi intorno per capire che le cose vadano diversamente. Per questo i politicanti dovrebbero quanto meno vergognarsi, essendo lautamente retribuiti per fare gli interessi della nazione e non i loro soltanto! E coloro che li votano e li rivotano?

Capita che quando loro, i politicanti, violino la sfera privata del cittadino, tutto sia regolare; quando invece qualcuno prova a far luce sulle loro mascalzonate, spesso lorde di sangue innocente, allora insorgono all'unisono per riportare rapidamente la situazione alla “normalità”. Nonostante la sempre più lapalissiana evidenza, la gente stenta ancora a capire come per questi dozzinali individui le cariche istituzionali soddisfino esclusivamente e spudoratamente il vecchio adagio latino che recita: “Ita in maxima fortuna, maxima licentia est” che non credo necessiti della traduzione per poter essere compreso.

“I politici sono uguali dappertutto: promettono di costruire ponti dove non ci sono i fiumi”.

Questo lo ricordava Kruscev.

“Un uomo di Stato è un politico che mette se stesso al servizio della nazione; un politico è un uomo di Stato che mette la nazione al suo servizio”.Così si esprimeva Pompidou. E proprio in questo periodo, ne stiamo verificando la drammatica attualità.

“Un uomo di Stato pensa alle prossime generazioni, un politico pensa alle prossime elezioni”.Queste parole erano di Clarke.

E il popolo? E la frotta esultante alle menzogne di costoro?

“Vulgus vult decipi, ergo, decipiatur!” Ricordavano i Romani. Che tradotto vuol dire: “La gente vuole essere imbrogliata, e allora che lo sia!”

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