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 Home page > Attualità > Politica > Il doge Giorgio, l’accordo Monti - PD e il Cavalier Giravolta

Il doge Giorgio, l’accordo Monti - PD e il Cavalier Giravolta

I veneziani, capaci di fondare un impero partendo da qualche isoletta melmosa, eleggevano preferibilmente dei dogi anziani, convinti che qualcuno arrivato all’ultima stagione della propria vita avrebbe agito senz’altri fini che il bene della Serenissima. Lo stesso si può dire di Giorgio Napolitano che in questi anni sta riscattando la propria criticabilissima storia politica (non posso dimenticare, da budapestiano d’adozione, quel che disse nel ‘56) dimostrando, con i fatti, di non avere altro a cuore che l’interesse della Repubblica di cui è Presidente. Lo sta provando anche in questi giorni, cercando di fare da maieuta ad un accordo di collaborazione tra Monti e il PD di cui mi pare sia prematuro strologare le forme, ma che certo dispiacerà ai tanti per cui l’Italia è solo un secondo pensiero.

Primo tra questi il Cavalier Giravolta, che, forse perché stanco, si è lasciato inaspettatamente sfuggire un paio di verità. Tornerò per “gli interessi che ho per l’Italia”, ha detto, che è cosa assai diversa dal farlo per gli interessi dell’Italia, se Monti non dovesse accettare di porsi alla guida di quei moderati che, ha ripetuto lo stesso signor B. durante il convegno Italia Popolare, “sono maggioranza nel paese”. 

È cosa indiscutibile, questa che siano maggioranza, se si attribuisce al termine moderati il suo significato più proprio. Sono tali tutti quei riformisti, progressisti e conservatori, (sì, per come stanno le nostre cose, non possono che essere riformisti anche i conservatori) che credono nella possibilità di uscire dalla crisi facendo dell’Italia una compiuta liberal-social-democrazia. Non sono affatto moderati, ma estremisti, ognuno a modo proprio, i leghisti sognatori della Padania, i berlusconiani fedeli sempre e comunque ai voleri del capo, i grillini per cui tutto è male quel che sta fuori dal loro movimento e i vari rifondatori, destri e sinistri, con uno o tutti e due i piedi fuori dal Parlamento.

Nessuno dubbio pure che Monti, dopo aver detto chiaro e tondo che non sarà mai alleato di Berlusconi, perché “prima lui e Alfano mi sfiduciano e poi mi candidano. Grazie, ma serve un po' di coerenza", appartenga all’area moderata così definita e possa, e voglia, continuare a rendersi utile al Paese (si vedrà se da PdC, da ministro o altrimenti) diventandone uno dei punti di riferimento o, se preferite, il punto di riferimento della sua parte destra. Pochissimi dubbi anche sul fatto che si possa arrivare a definire un programma comune ai moderati d’ogni colore. La cosiddetta “agenda Monti”, vale a dire gli impegni assunti dall’Italia nei confronti del resto d’Europa anche prima che Monti andasse al governo, non potrà che esserne tra le basi (cerchiamo di capirci una volta per tutte: quegli impegni non ci sono stati strappati dalla cattiveria di questo o quello; li abbiamo assunti perché erano l’assoluto minimo che potessimo fare per garantire ai mercati, a chi deve continuare a prestarci soldi, della nostra volontà e possibilità di ripagare i nostri debiti). Oltre a questa, di cui fanno parte anche quelle liberalizzazioni e quegli interventi per lo sviluppo di fatto impediti dall’ostruzionismo di PdL e Lega, esistono tutta una serie di misure ineludibili per chi voglia far tornare a crescere un paese che ha perduto almeno un quarto di secolo. Si tratta di rispondere, finalmente, ad una serie di domande fondamentali; prima fra tutte questa: “Perché un imprenditore, italiano o straniero, deve preferire lavorare in Italia piuttosto che altrove?”.

Fino ad oggi, si è data la risposta sbagliata: “Perché il lavoro costa poco”. Dare quella giusta, “perché il sistema paese funziona”, richiede un tale cambiamento del nostro modo di fare da pensare che sia possibile solo ad un governo, come sarebbe appunto quello “dei moderati”, che goda di un’ampia maggioranza, prima nella società che in Parlamento.

Le prossime, saranno le elezioni più importanti dal 1948, si è scritto da più parti. Verissimo, ma ancora non siamo al ’48. La nostra ricostruzione non è avviata a tal punto da poterci permettere di dividerci in destra e sinistra; da questo punto di vista siamo al ‘45, se non al ’43. Piuttosto, mentre dovremmo continuare ad ispirarci al CNL, lavorando tutti assieme per uscire dal pantano in cui si siamo infilati, sarebbe opportuno riflettessimo su un altro evento chiave della nostra ricostruzione: l’accordo firmato il 27 ottobre 1946 tra CGIL e Confindustria che, garantendo ai lavoratori un aumento del 35 %, oltre al pagamento della tredicesima e a dodici giorni di ferie, contribuì sia a garantire la pace sociale che a far ripartire il nostro mercato interno.

Le nostre aziende oggi non possono permettersi nulla del genere, pena chiudere i battenti. Verissimo. Che si debbano trovare i denari per abbattere le tasse pagate dal lavoro è altrettanto vero. Con la lotta all’evasione fiscale, (ma quella va prima fatta e solo poi contabilizzata) come pure con una drastica limitazione delle retribuzioni più alte di dirigenti ed amministratori di aziende ed enti pubblici. Soprattutto con un taglio netto ai costi della politica. Ma così si potrebbe recuperare solo qualche miliardo? Non abbastanza, certo, dal punto di vista economico; tutto quel che serve, dal punto di vista morale, per riguadagnare agli occhi del paese quella credibilità, quell’ autoritas, che la nostra politica ha perduto.

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