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Il cyber-Dragone e l’egemonia Usa

Il cyber-Dragone e l'egemonia Usa

Della guerra cyberspaziale a bassa intensità tra Cina e Usa non colpiscono tanto le schermaglie istituzionali tra l’accoppiata Clinton-Obama e il ministero degli Esteri di Pechino: rientrano nell’ordine delle cose.

E’ più interessante invece la ricostruzione dell’intera storia di Internet come “nuova botta di vita per l’egemonia Usa” (“Internet – New shot in the arm for US hegemony“) che, comparsa inizialmente su China Daily, è stata ripresa poi dalle maggiori testate online cinesi in lingua inglese: affinché quindi gli occidentali leggano.

Ho cercato il corrispettivo nelle edizioni in cinese e non l’ho trovato (magari per semplici limiti miei).

Sia in inglese sia in cinese compare invece un altro articolo – “Google incident and US Internet strategy” (ç?¯ç ?ç½?ï¼?è°·æ­?äº?件ä¸?ç¾?å?½äº?è ?ç½?æ??ç?¥) – che può essere visto come una sintesi conclusiva del commento più lungo.

Dunque, perché Internet sarebbe di fatto una quinta colonna statunitense in casa d’altri?

In sostanza: attraverso Internet, gli Stati Uniti cercano di rafforzare la propria egemonia mondiale dal punto di vista economico, culturale e politico.
Lo fanno promuovendo il mito della Rete come “mare aperto” in contrapposizione alle diverse reti locali intese come “acque territoriali“. Ma in mare aperto, gli Usa possono far valere la loro superiorità tecnologica e il fatto che controllano i nodi della Rete. Del resto, non hanno prove per sostenere le accuse di Google contro il governo cinese e negli stessi Usa operano squadre di hacker al servizio del governo.

La logica è evidente: se l’America controlla di fatto internet, gli altri Paesi devono tutelarsi con i propri strumenti. Sottointeso, anche con i “Grandi Firewall” e la censura.

Ma il controllo americano su Internet di quanti e quali punti forti si avvale?
Secondo “Internet – New shot in the arm for US hegemony” sono tre.

Primo: la “cyberguerra” e l’hackeraggio istituzionale che può contare anche sulla collaborazione delle grandi imprese IT.

Si parla di 80mila addetti che hanno sviluppato più di 2mila virus: “Worms, Trojans, Logic Bombs and trap door” (virus “botola”). Tutto muove dalla National Security Presidential Directive 16 (NSPD-16), top secret, con cui l’ex presidente George W. Bush ha costituito il primo nucleo di hacker “governativi”.

Spesso questi virus viaggiano sull’onda dell’export e della diffusione di tecnologie made in Usa. La guerra cibernetica è esplicitamente teorizzata anche da documenti militari disponibili online. In questo senso, gli Usa non hanno nessun diritto di fare la morale agli altri.

Secondo: il controllo dei rootserver che “assegnano” i nomi dei siti (DNS – Distributed Naming System).

Qui entriamo nel tema della “Internet governance“, del governo di Internet.
Ogni volta che io digito www.chen-ying.net, un sistema di server converte questo nome simbolico nel corrispondente indirizzo IP e rende visibile il mio sito. In teoria, secondo l’articolo di China Daily, “il network di un dato Paese scompare da Internet se il suo nome di dominio è bloccato o cancellato dai rootserver”.

Ecco l’esempio: “Nell’aprile 2004, la Libia sparì da Internet per tre giorni perché crollò il registro del suo nome di dominio, “Ly”, a causa di una disputa sul dominio stesso” (con la Lituania, ndr).
Il punto è che esistono 13 “terminal server” più un certo numero di server secondari e quasi tutti stanno negli Usa. E non c’è una regolamentazione internazionale che impedisca l’arbitrio dell’ICANN (Internet Corporation for Assigned Numers and Names), società di diritto privato, creata da Clinton nel 1998 e registrata in California.
Gli Stati Uniti si sono sempre opposti a tutti i tentativi di trasferire il controllo dei rootserver dall’ICANN a un’agenzia sovranazionale dell’Onu.

Terzo: il web 2.0 e l’egemonia culturale dei prodotti made in Usa (Twitter, Facebook, YouTube, etc).

Il web dal basso ha già svolto un ruolo fondamentale nel suscitare proteste in “Georgia, Egitto e Islanda”. Twitter è coinvolto nella “Rivoluzione coloratamoldava dell’aprile 2009 e, con YouTube, “nella turbolenta situazione” in Iran dopo le elezioni del giugno scorso.

In questa occasione, il governo Usa avrebbe addirittura chiesto a Twitter di rimandare le proprie procedure di manutenzione, previste per il 15 giugno, e il social network si è adeguato volentieri.

Insomma, i social network Us-based veicolano l’ideologia americana, fomentano rivolte e sono addirittura – seppur indirettamente – controllati dalla Casa Bianca (si citano a questo proposito dichiarazioni di Hillary Clinton).

Sul primo punto, il ragionamento cinese non fa una grinza.
Se nelle tecnologie di spionaggio, intercettazione e distruzione delle reti altrui, almeno teoricamente, tutti i Paesi evoluti partono allo stesso livello e istruiscono “hacker nazionalisti“, gli Stati Uniti investono però più soldi nell’applicazione della cybertecnologia alla forza militare. Fa testo il budget Usa per la Difesa, di gran lunga il maggiore al mondo.

Se si tratta di far crollare un sito o di spiare caselle di posta, si può ipotizzare che Cina e Usa siano sullo stesso piano. Se si tratta della sinergia tra lo smantellmento di un sistema antiaereo gestito elettronicamente e il successivo bombardamento con armi evolute, non c’è storia: la superiorità americana resta netta.
In questo senso, sia detto per inciso, le forze low-tech che combattono una “guerra diseguale” contro gli Usa hanno paradossalmente un vantaggio, in quanto non vulnerabili: non ci sono reti da hackerare.

Punto secondo: la Cina sembra premere per la condivisione della Internet governance in sede Onu (così come avanza la proposta di una moneta sovranazionale che sostituisca il dollaro).

E’ formalmente giusto, tuttavia si sa come funzionano le Nazioni Unite: i veti incrociati determinano spesso inefficienza e gonfiatura della burocrazia. Quindi, è probabile che il trasferimento dall’ICANN al Palazzo di Vetro sancirebbe la fine della Rete per come la conosciamo noi.

Con quali conseguenze? Forse da Internet “mare aperto” (dove però sguazzano le portaerei Usa) si passerebbe davvero alle “acque territoriali”.

Del resto questo è già tecnologicamente fattibile: se un certo numero di Internet Service Provider (ad esempio quelli cinesi) si associano e si appoggiano a rootserver diversi da quelli ICANN il gioco è fatto. Nasce una rete alternativa. La Cina potrebbe farlo anche forte dei suoi 384 milioni di netizen che costituiscono di fatto una rete nella rete. Ma è interessata? Credo di no.

Con queste prospettive, i Grandi Firewall e i periodici oscuramenti dei siti scomodi sono forse preferibili alla Rete-spezzatino: una sorta di prezzo da pagare per restare tutti nella stessa “Nuvola”, in attesa che la Cina si trasformi (e si sta trasformando) e che gli Usa escano dall’unilateralismo non solo a parole.

E veniamo al terzo punto, cioè, in parole povere, il soft power e la battaglia per influire sull’immaginario collettivo.
Ne abbiamo già parlato. Il web in generale e il web 2.0 costituiscono un aumento di complessità che il Partito comunista cinese controlla per ora con la censura. Ma le Grandi Muraglie si aggirano e qualsiasi smanettone di Pechino e dintorni sa come farlo.

Per la Cina, la battaglia si trasferisce allora altrove: la costituzione di social network cloni di quelli americani su cui si veicolano valori alternativi a quelli occidentali. E’ una battaglia sia politica sia commerciale e la barriera della lingua e dei valori favorisce questa operazione.

Qzone, rivolto ai teenager, ha circa 370 milioni di utenti registrati (su 384 milioni di Internet users cinesi, ricordiamolo); 51.com, il cui target sono le popolazioni rurali,viaggia sui 130 milioni; Tieba, il social network di Baidu, è a 110 milioni; Xiaonei, per gli studenti, fa 40 milioni e Kaixin001, per i colletti bianchi, 30 milioni.

Tuttavia, di nuovo, la Rete consente via di fuga insospettabili che possono cavalcare perfino la tigre dell’espansione commerciale.

Ecco un esempio che riprendo da un articolo di Simone Pieranni per China files:
“Un blogger piuttosto famoso, Keso, aveva fatto notare come gli accessi alla versione giapponese di Baidu fossero prevalentemente cinesi. «Che cosa cercano i cinesi, si chiedeva, nella versione giapponese di Baidu?» Il porno, naturalmente.”

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chenying

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