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L’unico inviato di guerra possibile è quello embedded

L'unico inviato di guerra possibile è quello embedded

Perugia, Festival Internazionale del Giornalismo. Alla domanda “sarebbe possibile raccontare oggi un’ipotetica presa di Kabul da parte degli insorti come fu raccontata la caduta di Saigon?”, i tre rispondono all’unisono: no, troppo pericoloso.

Sono Gianluca Ales, di Sky Tg24, Oliviero Bergamini, Tg3, e il generale Massimo Fogari, capo Ufficio Pubblica Informazione dello Stato Maggiore della Difesa.

Hanno partecipato e partecipano agli ultimi conflitti asimmetrici e non, i primi due come inviati, il terzo come militare, responsabile della comunicazione dell’esercito e dei rapporti con la stampa.

Il dibattito, sul giornalismo di guerra, spiaga trucchi e retroscena di una professione che risale a inizio Ottocento.

Paradossalmente – spiega il generale – solo se quegli insorti fossero tutti talebani, motivati e disciplinati religiosamente, si potrebbe raccontare l’eventuale caduta di Kabul “dalla loro parte”. “Hanno sempre dimostrato di avere un grande istinto per la comunicazione e potrebbero accettare la presenza di un giornalista”. Gli altri no: per capi tribù, qaedisti, narcotrafficanti, semplici insorti, il giornalista è al massimo una gallina dalle uova d’oro. Qualcuno da rapire per avere un riscatto.

Altrimenti è un bersaglio.

E il talebani strettamente intesi, secondo le ultime informazioni, sarebbero solo il 10 per cento circa della costellazione degli “insurgents”.

La conseguenza di questa riflessione è inevitabile: l’unico inviato di guerra possibile è quello embedded. Ma questo comporta inevitabilmente altri problemi: “Io racconto la guerra dal punto di vista dei soldati, di questo devo essere consapevole”, spiega Ales. Non racconto l’altra parte.

Tutto si gioca in una triangolazione tra giornalista, militari e potere politico – spiega Bergamini – e gli interessi di questi tre soggetti molto spesso non coincidono: “In Iraq abbiamo assistito a un progressivo inasprimento del controllo sui giornalisti su indicazione di governi che non volevano far apparire la guerra per come è”.

Si parla di governi italiani. In effetti – concordano i due giornalisi – da noi non c’è la stessa dimestichezza con la guerra che c’è nei Paesi anglosassoni. Un morto “dei nostri” è un dramma molto maggiore che da loro. Per cui bisogna nascondere.

Il generale Fogari rivela che una nuova direttiva del luglio 2009 ha codificato il rapporto tra esercito e giornalisti embedded. Ora l’inviato viene ospitato dai militari e aggregato a un’unità operativa dopo avere firmato una liberatoria sulla propria incolumità e un impegno a non mettere a repentaglio la vita dei soldati.

Prima – aggiunge Bergamini – era tutto indeterminato e quindi, per evitare guai, eravamo più controllati. Giravamo costantemente con ufficiali addetti che ci facevano un programma. Ora condividiamo in tutto e per tutto la vita delle unità operative assumendocene la responsabilità.

Secondo l’Inviato del Tg3 l’embedding è una contromossa made in Usa dopo il Vietnam. Dopo un inizio edulcorato, di quel conflitto i giornalisti raccontarono il lato oscuro. Le immagini di morti americani e delle sofferenze della popolazione civile fecero il giro del mondo e fomentarono la ribellione contro la guerra. Allora è meglio offrire ai giornalisti un “servizio” ma tenerlo sotto controllo.

Ma, embedding a parte, quali sono i segreti della professione? Secondo Ales è necessario soprattutto avere un buon traduttore e un ottimo stringer, il factotum che crea contatti e organizza gli spostamenti del giornalista sul teatro di guerra.

“E quindi – aggiunge – ci vogliono soprattutto istinto ed esperienza per sceglierli bene“. Il problema della mediazione linguistica e culturale è fondamentale: “Tendiamo sempre a occidentalizzare e quello che a noi appare folle, spesso per ‘loro’ è la normalità. E poi ci sono traduttori che spesso traducono quello che vogliono loro.”

Esiste anche un problema di sicurezza: “Leggendo il racconto di Mastrogiacomo – il giornalista di Repubblica rapito e poi rilasciato in Afghanistan – fa impressione vedere come tutto fosse predisposto al meglio, con contatti fidati fino a un giorno prima. E poi si è visto come è andata a finire.”

L’embedding ha dei limiti – conclude Bergamini – ma non bisogna neanche pensare che raccontare “l’altro” sia la verità. In guerra è difficile trovarla, la verità.

Un aneddoto.

“Un giornalista francese va un giorno nell’ospedale di Umberto Cairo, l’ortopedico italiano che opera a Kabul. Trova un afghano con la gamba amputata, gli chiede come è successo e quello comincia a raccontargli una storia drammatica: la guerra, la casa distrutta, è stato picchiato dai talebani, è saltato su una bomba, eccetera. Il giornalista va via con il suo pezzo e arriva Cairo: ‘Cosa gli hai raccontato? Hai perso la gamba in un incidente in campagna‘. ‘Sì è vero – risponde quello – ma hai visto come è andato via contento?’

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