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Il colpevole non è uno solo. A Sarroch va in scena la guerra del lavoro

Lavoro - L’incidente alla Saras riapre il dibattito sulla sicurezza, ma non quello sul modo di produrre.
di Pietro Orsatti su Terra

Le cifre continuano a essere impressionanti: 422 morti, 422.440 infortuni, 10.561 invalidi. Dal primo gennaio a ieri. Sembrano i numeri di una guerra. Una guerra che si chiama lavoro. Dopo la tragedia della Thyssen Krupp di Torino sembrava che fosse arrivato il momento di affrontare davvero il nodo della sicurezza. Proclami bipartisan, interventi del presidente della Repubblica, l’attenzione, finalmente, della stampa e della televisione. E invece si continua a morire, a rimanere mutilati, a andare al lavoro come se si andasse al fronte. Perché le aziende non rispettano le norme di sicurezza? Sì, ma anche solo in parte. Perché le leggi non ci sono? No, le leggi ci sono, i protocolli pure e così le certificazioni di qualità. Allora perché? Perché non si fanno i controlli? Perché non si applicano fino a in fondo le regole? Può essere, ma la realtà sembra trovarsi, soprattutto per quanto riguarda le morti bianche nei grandi impianti, altrove. Quasi che fosse l’incidente, l’infortunio, insito nel lavoro stesso.


Andiamo al sinistro di due giorni fa in Sardegna, con il suo terribile bilancio di tre morti. Tre lavoratori della Saras, proprietà della famiglia Moratti, dell’impianto di Sarroch. L’azienda risulterebbe in regola e investe, e molto, in sicurezza: una controtendenza visti i casi, appunto, della Thyssen e di stabilimenti simili. Nell’area industriale sdo sciopero di otto ore proclamato da Cgil-Cisl-Uil che hanno indetto per la settimana prossima un’assemblea nello stabilimento per discutere di sicurezza e infortuni. Il rituale di ogni grande incidente. Purtroppo. «Se non si ferma il meccanismo dell’appalto e del subappalto, se non si ferma il sistema dei contratti a termine e la pericolosità nei luoghi di lavoro i morti continueranno», ha dichiarato il segretario della Fiom Giorgio Cremaschi. Probabilmente è vero, ma può bastare? Quello che emerge è uno scenario, nei luoghi di lavoro “industriale”, in cui si sommano vari fattori che diventano concause degli incidenti.

Prima di tutto la richiesta di una maggiore velocità di produzione da parte del mercato. Velocità che si ottiene, come per esempio nella cantieristica navale, grazie alla contemporaneità nella stessa area di produzione di diverse attività, spesso affidate - e qui subentra la questione del subappalto. Perché spesso ci si trova a operare contemporaneamente senza coordinamento e con formazione, alla sicurezza compresa, difforme se ad esempio il personale delle due o più ditte in appalto è di nazionalità e di lingua differente. Paradossalmente quando le esigenze produttive impongono questo tipo di promiscuità di attività e si verifica un incidente, le responsabilità troppo spesso vengono redistribuite fra azienda e lavoratore. La dinamica dell’incidente alla Saras è oggi al vaglio della magistratura che, come atto dovuto, ha aperto un’indagine. Si cercheranno i colpevoli di questo ennesimo incidente, cercando di dargli un nome, un volto, individuarne la posizione esatta all’interno della gerarchia aziendale. Ma davanti ai giudici non arriverà mai l’imputato principale: il modo di produrre. A questo vuoto dovrebbe ovviare la politica, ma è un’altro discorso.

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