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 Home page > Attualità > Cultura > Il "Primo Maggio" di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Il "Primo Maggio" di Giuseppe Pellizza da Volpedo

L’immagine che rappresenta il Primo Maggio, per me che d’immagini sono sempre stato goloso, è quella dipinta da Pelizza da Volpedo nel quadro che porta quel nome.

Almeno, porta quel nome nella mia memoria.

Non so quando la vidi la prima volta quell’immagine così forte e così ampiamente diffusa, ma la massa compatta di uomini che marciava inarrestabile, dall’oscurità verso la luce, guidata da uno con la faccia da montanaro, la giacchetta buttata sulla spalla e il passo sicuro, che sembrava tanto un mio zio, colpì moltissimo la mia fantasia già fin da bambino.

Per un qualche motivo dapprima l’archiviai nella memoria con il titolo di: “l’Avanti”.

Penso che mi debba aver spiegato qualcosa il nonno o qualcuno dei suoi amici, a riguardo, probabilmente parlandomi di socialismo e che, sommando disordinatamente un pezzo d’informazione all’altro, io abbia finito per confondere il nome del giornale del partito socialista con il quadro che, perlomeno nell’interpretazione del mio maestro, chiunque possa esser stato, era di quel movimento era la rappresentazione visiva.

Il quadro si chiamava ancora così, per me, quando incontrai un ragazza un poco più grande ed infinitamente più colta di me.

Studiava lingue, veniva dal centro Italia, era bellissima e soprattutto, per uno di quei miracoli che capitano quando ci si incontra tra italiani in giro per il mondo, s’innamorò di me. Forse. Io sicuramente di lei ero innamorato cotto.

Lei sapeva tutto di tutto e parlava più di me, che sono pure logorroico, oltre che notorio grafomane, ed io rimanevo ad ascoltarla incantato, per ore di seguito, mentre spezzava con me il pane delle sue infinite conoscenze.

Non che ci capissi molto, ma che cosa sia una fricativa e che un certo Sassure , per un qualche motivo, abbia una certa importanza, lo imparai da lei in quei mesi passati, più che altro, a letto.

Incontrammo assieme, in una libreria, un poster che riproduceva il dipinto di Pelizza da Volpedo. Io non conoscevo, allora, il nome del pittore, ma certo conoscevo il titolo dell’opera. Fiero di poter finalmente mostrarle di sapere anch’io qualcosa puntai al rettangolo di carta patinata dentro al raccoglitore che stavamo sfogliano e le dissi: “Mi è sempre piaciuto un casino l’Avanti”.

Lei fu gentilissima; rise ma non sghignazzò: “Ma dai, cosa dici? Lo sanno tutti che quel quadro s’intitola il Primo Maggio.”

Io mi sentii umiliato come non mai; giurai a me stesso che mai avrei dimenticato quel titolo e me lo martellai nella mente, ripetendolo come un mantra. Ci volle qualche sforzo ma alla fine riuscii a sostituire con la nuova informazione, datami da una fonte così attendibile, quella inesatta che, nella mia memoria, l’aveva preceduta.

Lei finì la tesi di laurea e se ne tornò in Italia poco dopo. Io restai lì. Ci giurammo amore eterno e ci telefonammo due volte o forse tre. Nell’ ultima mi disse che aveva conosciuto un ragazzo tanto simpatico, giocatore di pallanuoto. Punto.

Seguii a Milano un altro amore, un paio di anni dopo. “ Mi occupo di ceramica”, dicevo scherzando; in realtà posavo piastrelle e muravo vasche da bagno ed affini per un negozio di articoli “sanitari” dallo stupido nome pseudo inglese.

Lavoravo malissimo – tra me e le piastrelle c’era solo sopportazione – ma mi divertivo a fare l’artista, la sera, in quella città che qualcuno, poi avrebbe definito “da bere”.

Dipingevo orrende croste ,che ancora qualcuno terrà appeso in qualche angolo nascosto di casa, e scrivevo canzoni per un gruppo che fu quasi famoso, perlomeno in quel quartiere, prima di sparire nel nulla.

Alla Villa Reale, che ospita la Galleria d’Arte Moderna ci andai da solo, una mattina di un giorno d’estate senza piastrelle né bidet, poco prima di andarmene da quella che ormai era un fastidiosa convivenza.

Il quadro di Pelizza da Volpedo era lì.

Nonostante fosse infilato in un lungo è stretto corridoio del tutto inadatto ad esporlo nei debiti modi agli occhi del pubblico, m’insegnò alcune lezioni che non ho dimenticato.

La più banale fu l’importanza di leggere sempre i testi nella loro forma originale.

E’ vero per tutte le opere di qualunque genere, ma solo due altri quadri mi si sono rivelati così sorprendenti quando li ho visti dal vero: l’enorme “Deposizione dalla Croce” di Van der Weijden al Prado e il minuscolo “Quadrato Nero”di Malevic’ al Beaubourg , ma allora ancora anni lontano dal poterli osservare.

Il “Primo Maggio” fu il primo quadro che mi si rivelasse così diverso, nella sua realtà, rispetto alle riproduzioni: le gigantesche dimensioni e la matericità della pittura trasformavano l’immagine, che avevo quasi irriflessivamente consumato fino ad allora, aggiungendole un dimensione eroica. Di più: la modulazione divisionista dei colori era infinitamente più complessa di quanto avessi potuto immaginare; infinitamente più morbido e continuo era il passaggio tra la luce del primo piano e l’ombra del fondo.

M’impressionò moltissimo la qualità del lavoro dei pennelli, così perfettamente visibile nel trattamento della grande superficie di terra battuta.

Al di là del valore iconico di quell’immagine, oltre l’ermeneutica, quel quadro apparve a me, giovane pittore, opera di un grande Maestro; di qualcuno che, ne pensino quel che vogliono i critici e gli storici dell’arte, sapeva dipingere come pochissimi.

E’ un giudizio che confermo ancora oggi, dopo molte letture e tanti musei: il “Primo Maggio” è un capolavoro a livello, per citare un pittore internazionalmente assai più famoso del nostro che si occupò di tematiche analoghe, dei migliori Caillebotte.

Mi piacerebbe che chi mi sta leggendo potesse osservare una riproduzione dei “Raschiatori di Parquet“, la più nota delle opere del francese e la tenesse in serbo per qualche minuto.

Solo in quel corridoio, non c’erano altri visitatori e nessun sorvegliante in vista, a tu per tu con l’opera, colsi qualcos’altro, nell’opera di Pelizza, che mi era sfuggito più a causa dell’età fino ad allora troppo giovane per capirlo, che per le lacune delle riproduzioni.

Le figure di Pellizza trasudano dignità.

I suoi lavoratori sono individui, ognuno con le sue caratteristiche, non le figure stereotipate delle propagande di tutti i regimi; sono consci dei propri diritti e vanno dritti per la loro strada, senza minacciare nessuno, ma anche ben decisi a non farsi mettere i piedi in testa da nessuno.

Quanto diversa questa immagine da quella offerta dal quadro di Caillebotte: gli umile raschiatori di parquet che ci muovono quasi a compassione per la modestia delle loro condizioni e la durezza del loro lavoro.

I lavoratori di Pellizza non vogliono fare pena proprio a nessuno: sono sicuri di se stessi e del proprio valore, prima ancora che come classe, come individui.

Una differenza di atteggiamento verso il lavoro e le classi lavoratrici, quella dei due pittori, che riflette i progressi sociali conseguiti, nel quarto di secolo che separa i due quadri, dalla civiltà europea.

Resta da chiedersi quale dovrebbe essere , oggi, l’immagine/ icona del mondo del lavoro. Ognuno, sono sicuro, avrà una sua risposta.

Ah, vero; il titolo del quadro.

Mi soffermai sulla targhetta di bronzo lucente, sotto all’opera, solo dopo qualche minuto. La lessi distrattamente, tanto ero convinto di sapere già quel che ci poteva essere scritto.

Nella prima riga, in alto, era inciso il nome del pittore: “Giuseppe Pelizza da Volpedo”. Certo che è bello sapere di sapere. Nella riga sotto, in caratteri un poco più piccoli, il titolo dell’ opera: “Come?... Ma... ma...”. Sgranai gli occhi; lessi meglio. No, non era un allucinazione; anziché “Il Primo Maggio”, come ero sicurissimo dovesse essere il caso, c’era proprio scritto: “Il Quarto Stato.”

Pensai a quel mio lontano amore, alla mia vergogna di quel pomeriggio in libreria, e risi come un pazzo.

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