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I tassisti, i georgiani e la Repubblica

"Siamo in un pantano da cui non usciremo (...) se, facendo valere i nostri diritti, ma compiendo fino in fondo i nostri doveri, non ci decideremo a diventare, a pieno titolo, cittadini della Repubblica".

Karl E. Meyer, nel suo libro del 2004 “Dust of Empires”, dedicato alla lotta tra le grandi potenze per il predominio nell’Asia Centrale, cita uno studioso che pressappoco così, scusate ma debbo usare la memoria, spiega le difficoltà incontrate dalla Georgia nel trasformasi da Repubblica Sovietica, in uno Stato indipendente: “I georgiani hanno imparato che per sopravvivere dovevano rubare l’argenteria dei loro padroni; continuano a farlo anche oggi, perché non hanno capito di essere diventati loro, i padroni”.

Credo che tanti dei nostri problemi abbiano la stessa origine: che nascano dal fatto che anche noi italiani, dopo 150 anni di Unità Nazionale e, soprattutto, 64 anni di storia Repubblicana, non abbiamo del tutto capito d’essere i padroni a casa nostra. Non abbiamo ancora capito d’essere i titolari della sovranità nazionale: che parlamentari e ministri hanno potere solo perché noi glielo conferiamo; che le leggi dello Stato vengono emanate in nome nostro e per conto nostro.

Soprattutto ci ostiniamo a non comprendere che chi viola le leggi fa torto ad ognuno di noi. Solo così si può spiegare quell’indulgenza verso i furbi che è tra i caratteri più singolari della nostra comunità nazionale. Evasori fiscali e truffatori ai danni dello Stato d’ogni tipo (gli imprenditori che ottengono milioni che non gli sarebbero dovuti, come i dipendenti pubblici assenteisti o i falsi invalidi) esistono, in un modo o nell’altro, ovunque, ma solo nel nostro paese godono della più assoluta impunità sociale.

Nessuno si scandalizza davvero, davanti ai loro comportamenti; nessuno si sogna di considerarli e trattarli alla stregua di criminali. Molti, anzi, pensano che in fondo facciano bene; che non si faccia del male a nessuno violando leggi e regolamenti. che chi ruba allo Stato non commetta un vero furto perché, in fondo, non ruba a nessuno. Rubano a tutti, si dovrebbe dire, e dovremmo provare per loro gli stessi sentimenti che ci induce il ladro che ci ha svaligiato l’appartamento, magari mentre eravamo in vacanza.

Il nostro risentimento, e i nostri sospetti, invece, vanno sempre all’autorità: è sempre lo Stato che avrebbe dovuto fare questo o quello; è del Comune o della Regione che non ci fidiamo, non del commercialista, amico di famiglia, specializzato in fondi neri. Non avendo capito d’essere noi lo Stato e che nostra è l’autorità, facciamo di tutto perché non vi siano controlli; perché le leggi restino, per quanto possibile, lettera morta.

I tedeschi o gli americani non pagano volentieri le tasse; lo fanno perché altrimenti avrebbero altissime possibilità d’essere scoperti e severamente puniti. Il ministero dell’Economia ha appena pubblicato le statistiche fiscali relative a tutte le attività imprenditoriali per il 2009: in assenza o quasi di seri controlli, quell’anno gli orafi hanno dichiarato un reddito di 12.300 euro; i gestori di stabilimenti balneari uno di 13.600. Chi ha un istituto di bellezza, poi, ha sofferto la fame, guadagnando solo 5.300 miserrimi euro.

Oggi i tassisti napoletani, che da giorni hanno invaso Piazza del Plebiscito con le loro auto, marceranno su Roma per fare sentire anche la loro voce, o forse i loro clacson, durante l’incontro che si terrà nel pomeriggio tra i rappresentanti della loro categoria ed il Governo. Affermano d’essere già in soprannumero e, come i loro colleghi delle altre città italiane, sono contrari a qualunque ipotesi di liberalizzazione; per le loro licenze hanno pagato fior di quattrini (una, a Roma o Milano, dicono possa arrivare a costare 300.000 Euro) e non vogliono veder andare il fumo il loro investimento. Un investimento tra i più infelici che si possano fare, se si deve credere alle loro dichiarazioni dei redditi, da cui ricavano la pochezza di 14.200 Euro l’anno; di che morire d’invidia, vedendo operai ed impiegati andare al lavoro.

So benissimo che esistono ben altri monopoli in Italia e che esistono altre, e ben più potenti corporazioni, ma proprio i tassisti offrono uno splendido esempio della nostra mentalità. Da una parte chiediamo allo Stato, quasi come ad un signore feudale, la licenza, la bolla, il permesso e, più in generale, la difesa dei nostri, spesso infimi, privilegi; dall’altra, a questo Stato che ci raccontiamo essere lontanissimo, quasi fossimo una colonia di chissà quale potenza, non siamo disposti a dare nulla più dell’assoluto minimo.

Il disastro dei nostri conti pubblici si spiega, prima di tutto, così; se scompariremo (forse lo abbiamo già fatto) dal novero delle nazioni che contano, sarà solo per queste ragioni. Per sopravvivere dovremmo cambiare, e dannatamente in fretta, il nostro rapporto con lo Stato che ci siamo costruiti a nostra immagine e somiglianza.

Un obiettivo realizzabile, se non fosse che, quale che sia la nostra categoria, per quanto assurdi possano essere i privilegi (i notai? Ma a che servono i notai? Ci sono solo in Italia e Spagna) possiamo essere certi di trovare una forza politica che se ne farà portavoce; un politicante disposto a far cadere qualunque governo pur di difenderli.

Siamo in un pantano da cui non usciremo, se non avviveremo a comprendere, una volta per tutte, che il nostro interesse a lungo termine coincide con l’interesse generale del Paese; se, memori del passato, anche recente, non avremo la forza di resistere alle sirene di questo o quel populismo. Se facendo valere i nostri diritti, ma compiendo fino in fondo i nostri doveri, non ci decideremo a diventare, a pieno titolo, cittadini della Repubblica.

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