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I professionisti della politica, la paura del nuovo e la necessità di una Costituente

"I nuovi non sapranno fare questo o quello? Chiediamoci piuttosto se non sia il caso di cambiare un sistema che si è ormai avvitato su sé stesso, in cui i politici fanno altro e la politica, quella vera, non si sa più dove sia finita". 

Quando un paese può funzionare solo se guidato da politici di mestiere, evidentemente la sua struttura ha qualcosa di sbagliato; vuole dire che al politico non sono richieste solo le generali competenze necessarie per prendere decisioni appunto politiche, ma conoscenze tecniche e gestionali specifiche per occuparsi della direzione puntuale, tattica, di questo o quel settore dello Stato, della regione o del comune. Vuol dire, in altre parole, che la politica è uscita dal proprio alveo, per invadere campi che non dovrebbero essere suoi, e che si chiede agli eletti di svolgere mansioni che dovrebbero essere invece proprie dei dirigenti della pubblica amministrazione. 

Questo stato di cose, esattamente quello che troviamo in Italia, conduce ad una straordinaria inefficienza. I meccanismi di gestione, prima di tutto, se sono tanto complessi da richiedere anni d’esperienza per impadronirsene, non potranno che rispondere con penosa lentezza ai bisogni della società. Il politico di mestiere, inoltre, di economia come di trasporti o di urbanistica, in realtà sa pochissimo: è un professionista della ricerca del consenso, nella migliore delle ipotesi, o, nella peggiore, un arrampicatore che è riuscito a farsi strada dentro i partiti fino a guadagnarsi, in modi su cui è meglio non indagare troppo, la benevolenza dei capi.

Ho letto, a questo proposito, un bello scambio di battute che sarebbe avvenuto tra Miccichè e Vendola. “Voi candidate troppi familiari delle vittime”, ha all’incirca detto il primo. “Per forza, voi candidate tutti i mandanti”, pare abbia replicato prontamente Vendola. Non importa quale dei due vi sia più simpatico: c’è in quei “voi candidate” tutta la mancanza di democrazia intrinseca ad un sistema in cui presentarsi alle elezioni non è diritto di tutti, ma concessione che i capi partito riservano a pochi; in cui i seggi, in Parlamento o nei consigli, sono in buona sostanza dei feudi.

Una situazione che potrebbe essere cambiata solo dall’introduzione di primarie di collegio, che pure non basterebbero, da sole, a garantire un rinnovamento della nostra classe politica. I politici di mestiere avrebbero comunque dalla loro il vantaggio d’essere già conosciuti e, probabilmente, di saper comunicare meglio con l’elettorato. Molti di loro finirebbero per essere rieletti, ma sarebbe data una reale possibilità di accedere alla politica a chi, proprio per aver maturato esperienze in altri campi, per essersi dovuto guadagnare la vita facendo l’operaio (ne è rimasto uno, in tutto il Parlamento?) o l’astrofisico, ne è stato finora escluso.

Non intendo insinuare, con questo, che la politica sia un mestiere semplice o poco faticoso. Non lo è affatto, e proprio le sue difficoltà e fatica fanno sì che i politici di professione brillino, nella stragrande maggioranza dei casi, per mancanza di vera cultura e di vere competenze; anche i migliori tra loro, entrati in politica fin da giovanissimi e cresciuti senza un minuto di tempo libero (tra riunioni, assemblee, dibattitti e partecipazioni a questa o quella iniziativa), non hanno in genere avuto modo né di leggere più che il minimo indispensabile (e spesso neppure quello) né di conoscere, se non nel più superficiale dei modi, quel mondo del lavoro che dicono tanto d’amare.

A loro si dovrebbe solo richiedere d’avere un po’ di buon senso e dei saldi principi; di aver conservato degli ideali e, nella più ottimistica delle ipotesi, di avere la capacità di guardare un po’ più lontano del qui e dell’oggi. Nulla di più, in realtà, di quello che si dovrebbe auspicare abbiano i loro elettori. Nulla di tanto specifico da giustificare la loro presenza al potere per decenni; il loro, appunto, esser professionisti della politica. 

E De Gasperi, e Togliatti e tutti i nobili esempi della politica passata? Premesso che le biografie di tanti dei nostri costituenti, non fosse altro che a causa del regime fascista, non potevano certo essere paragonate a quelle dei polli d’allevamento prodotti dagli attuali partiti, neppure loro brillavano in genere per competenze; solo pochi, probabilmente, avrebbe saputo dove mettere le mani se un assessorato ai lavori pubblici gli fosse “precipitato addosso”. Non erano certo gli anni passati a fa politica, o la conoscenza della macchina amministrativa, a far di loro quel che erano, ma la saldezza delle convinzioni, la fermezza dei principi e l’assoluta onestà: doti che, specie di questi tempi, non è affatto detto siano più diffuse tra i nostri parlamentari che nel resto della nostra società. Doti che dovremmo cercare d’individuare, in chi avrà il nostro voto, senza minimamente badare a quanta esperienza abbia della politica; se sia alla sua prima o decima campagna elettorale.

I nuovi non sapranno fare questo o quello? Chiediamoci piuttosto se non sia il caso di cambiare un sistema che si è ormai avvitato su sé stesso, in cui i politici fanno altro e la politica, quella vera, non si sa più dove sia finita. 

Domandiamoci, soprattutto, dopo aver considerato la lezione della Storia, se la ricostruzione del Paese non debba iniziare con l’elezione tra i nostri migliori, nuovi o vecchi che siano, dei membri di una nuova Assemblea Costituente.

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