• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Società > I media decidono per noi

I media decidono per noi

Alcuni giorni fa, leggendo la prima pagina di questo giornale mi sono accorto quasi per caso che un mio articolo del 12 agosto dal titolo "Melania stordita in casa?", era al primo posto nella classifica degli articoli più letti. Dapprima piacevolmente sorpreso, ho dovuto poi constatare con rammarico che altri articoli più di interesse generale (sulla Finanziaria, sulla soppressione di alcune festività) avevano suscitato meno "curiosità" di un articolo che proponeva l'ennesima discussione su un fatto di cronaca ormai da quasi 4 mesi sviscerato in ogni particolare. Poi nei giorni successivi per fortuna le cose sono tornate a posto, e il mio articolo non è stato più nemmeno in classifica. Ma solo per poco; ieri in testa è tornato Kakà (non me vorrà l'autore dell'articolo). La questione merita un tentativo di approfondimento perché capita troppo spesso che ci interessiamo più ai fatti privati, di cronaca nera o rosa che siano, che ai fatti di impatto pubblico, anche di primaria importanza.

E se è facile dire che ciò non è normale, risulta più complicato capirne il perché.

Io ho vissuto sui banchi delle medie e poi del liceo gli anni 70, Furono anni di grande impegno e partecipazione. Si approvò lo "Statuto dei Lavoratori", si decise sul divorzio, sull'aborto, si visse il terrorismo. In quegli anni era impensabile che ci si potesse interessare più del rapimento di Milena Sutter che del dibattito sul divorzio. I fatti di cronaca potevano interessare, ma solo se avevano implicazioni politiche, come ad esempio la strage del Circeo, o lo "strano" incidente in cui morì, ad Atene, Alessandro Panagulis. Altrimenti se ne occupavano solo gli inquirenti e i giudici.

Oggi i fatti di cronaca possono interessare ma solo se non hanno implicazioni politiche, per cui di Sarah Scazzi se ne parla per diverse ore al giorno per sei mesi, di Stefano Cucchi bastano poche righe in trentatreesima, e quindici parole alla fine del TG1, una volta quando muore, e un'altra volta quando è chiusa l'inchiesta; totale trenta. 

Due giovani che muoiono. Due diverse modalità di morte. Di una che non tocca alcun Potere più se ne parla meglio è, dell'altra che "disturba" alcune Istituzioni se ne deve parlare il meno possibile. E quindi non siamo più alla naturale morbosità che suscita il fatto di cronaca. Se si trattasse solo della voglia di leggerezza che prevale sulla pesantezza di interessarsi della Finanziaria, (come si industriano a spiegarci alcuni "opinionisti" che vogliono legittimare e alimentare il disimpegno) le due morti (di Sarah Scazzi e di Stefano Cucchi) dovrebbero interessare la gente alle stesso modo. Ma ciò non accade e si ha la dimostrazione che non è il pubblico a scegliere. L'argomento del giorno non lo decide chi ascolta ma chi ha in mano il microfono. Solo così si può spiegare che stia passando sotto silenzio la soppressione della festa del 25 Aprile, (cioè la nostra identità nazionale) mentre i TG sono impegnati a spiegarci che la gente è in vacanza che c'è molto traffico, che fa caldo. E se un po' se ne parla, del 25 Aprile, è solo in rete. Negli anni 70 per molto meno si scendeva in piazza anche ad agosto.

Peppino Impastato in quegli anni parlava del pericolo del disimpegno, e aveva ragione. Il disinteresse, il lasciar fare, la delega ad occhi chiusi, sono l'anticamera dei disastri. I detentori dei megafoni lavorano da quasi vent'anni per favorire la "cultura del disimpegno". Chi ha il potere e i megafoni (oggi le due cose coincidono) ci vuole "distratti", concentrati magari su chi vince "L'Isola dei Famosi" o la Champions League, e vuole che di argomenti scottanti se ne parli il meno possibile. La morte di Stefano Cucchi è scomoda (morto in ospedale da detenuto, chiama in causa l'istituzione carceraria, e quella sanitaria)? Non se ne parla quasi per niente. La morte di Sarah Scazzi non disturba nessuno? Parliamone a più non posso. Serve a intrattenere, dopo una pubblicità e fino all'altra, a riempire i palinsesti parlando di niente. Certo anche nei 70 la TV era condizionata dalla politica, ma prevaleva il fervore di una crescita culturale da guidare e ispirare, e la Rai era stimolata dalla stampa libera, quella che poteva occuparsi di tutto senza dover rendere conto a nessuno, in quanto, vivendo di finanziamenti pubblici non era ricattabile. Ed esistevano i partiti. Che avevano sezioni in ogni quartiere d'Italia, e in ogni quartiere si parlava di tutto, dalle sezioni gli argomenti uscivano, i militanti li portavano nelle case. Ridurre la gente al disimpegno era più difficile. Esistevano le manifestazioni, i cortei. Certo, i cortei ci sono anche oggi, ma solo a Roma, Palermo e Milano. Allora anche a Giarratana, e a Bettolino. Anche oggi gli argomenti arrivano nelle case, ma non più attraverso i militanti, bensì portati dalla TV, che decide l'importanza, i tempi e i modi di ogni questione. E così una norma devastante come quella che allunga i processi, in discussione in Parlamento, viene trattata dalla Tv in poche battute, solo una o due volte giusto per adempiere un dovere di informazione. Ma la stessa TV (precisamente il TG1) poi spende un servizio di alcuni minuti da Londra, ogni giorno, sul colore del cappellino della Regina.

E i partiti oggi non sono più nelle sezioni, anzi non ci sono proprio più, ci sono dei comitati d'affari, che mandano a turno qualcuno in TV a dire ciò che è opportuno dire. E i giornali appartengono tutti a editori privati, con la scusa che non devono gravare sulla spesa pubblica, ma finisce che gravano lo stesso sulla spesa pubblica facendo gli interessi dell'editore privato. E il giornalista dell'editore privato è libero di dire ciò che "vuole" .Tutti i giornalisti sono liberi di dire ciò che "vuole". E non c' è errore nella coniugazione del verbo.....

Ovviamente la questione non si esaurisce qui, sarebbe troppo semplicistico liquidarla con la sintesi vittimistica che è tutta colpa della manipolazione mediatica, c'è da capire perché la gente si lascia "manipolare", c'è da capire dove finisce la manipolazione e dove comincia la pigrizia, l'indifferenza; e il perché dell'indifferenza. E nel paragone con gli anni 70 bisogna ricordare che quelli erano anni di conquiste sociali e questi sono gli anni, in un normale ciclo di evoluzione e involuzione, in cui felicemente godiamo di quelle conquiste, e felicemente le perdiamo.

Commenti all'articolo

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares