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Gli infami

 
In questi giorni, nel variegato panorama dell’antimafia, da una parte salottiera, dall’altra militante, si fa un gran parlare di “nfami”. Hanno cominciato due ottimi giornalisti, Roberta Mani e Roberto Rossi, con un libro dal titolo “Avamposto” (sottotitolo: ”Nella Calabria dei giornalisti infami”): con certosina pazienza i due hanno raccolto le testimonianze di giornalisti calabresi “in trincea”, costantemente minacciati dalla ndrangheta con avvertimenti, buste contenenti proiettili, teste di animali, messaggi di minacce e inviti a non occuparsi di “fatti di mafia” riguardanti persone scomparse, delitti, appalti, traffici di droga, affari, in un territorio interamente controllato dalla delinquenza malandrina con ampie metastasi nel resto d’Italia e del mondo.
 
Il libro, oltre a una minuziosa cronologia, contiene pazienti ricostruzioni di vari delitti, con interviste ai parenti e con tutte le carenze, spesso veri e propri depistaggi, nel campo delle indagini o in quello processuale, e con una mappa che illustra le aree di competenza territoriale delle varie ndrine. Il primo rigo comincia con: ”Ciao, papà, che significa ’mpamu?”. Il papà, il giornalista calabrese Michele Albanese, sa bene che ’mpamu sta per “infame” e che nella sua terra “infami sono gli sbirri, i magistrati, i pentiti, quelli che parlano assai”.
 
Il libro è pubblicato dalla Marsilio editori di Venezia e la sua prima edizione è del maggio 2010. Alcune settimane dopo è stata la volta di un libro simile, scritto da Walter Molino, dal titolo “Taci infame”, (sottotitolo:”Vite di cronisti dal fronte del sud”), edito dalla berlusconiana casa editrice Il Saggiatore. Il tema è uguale, solo che il viaggio di descrizione del lavoro dell’infame si svolge anche in Sicilia attraverso interviste ad alcuni giornalisti che, nell’occuparsi di vicende di mafia, hanno avuto vita difficile e hanno corso il rischio di essere costretti a cambiar mestiere. La coincidenza dell’accoppiata “giornalista-infame” che caratterizza i due lavori è troppo evidente per non lasciare spazio alla domanda se l’autore del secondo libro, cioè Molino, si sia ispirato al primo. Ciò nonostante va promuovendolo come il primo libro scritto in Italia sui giornalisti minacciati.
 
Naturalmente, data la vicinanza delle due pubblicazioni, non si può dire che Molino si sia servito dello spunto di Mani e Rossi, di certo però per scrivere il suo libro ha preso a piene mani dal lavoro che da alcuni anni i due autori, assieme ad altri, svolgono da volontari in “Ossigeno per l’informazione”, l’osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati diretto da Alberto Spampinato, col quale Molino non ha mai collaborato. Ossigeno ha pubblicato già due Rapporti scaricabili dal sito della FNSI.
 
Non sarebbe il caso di interessarsi della vicenda se non leggessimo, nel libro di Molino una decina di pagine dedicate alla natia Partinico, definita (come già ha fatto lo storico Giuseppe Casarrubea) “il paese dei cannibali” e illustrata come un angolo d’inferno in cui prolificano assassini, mafiosi, truffaldini, cittadini interamente sordi, ciechi o complici, clientelismo politico mostruoso, disoccupazione dilagante, ma, insieme, incalcolabili depositi bancari, auto di grossa cilindrata, discoteche, fiumi di moescianton, cantine vinicole che pagano il pizzo, una distilleria che ammorba l’aria, imprenditori del nord e locali che investono quattrini nel campo della grossa distribuzione commerciale, abusivi, appalti truccati, riciclaggio incalcolabile di denaro sporco. Un angolo d’inferno senza speranza, dove la legge è inesistente, i boss vengono liberati per personali acciacchi e circolano liberamente, le forze dell’ordine sono senza mezzi e senza molta voglia d’impegnarsi nel controllare il territorio.
 
Non si sa se per non calcare troppo la mano o per distrazione, Molino dimentica molte altre cose negative, come la diffusa coltivazione di cannabis, gli attentati incendiari, la facilità del ricorso alla violenza, la mancanza di senso civico e il costante proliferare di rifiuti in ogni angolo del paese, ma non parla minimamente di altre cose positive che caratterizzano numerosi cittadini che in questo posto ci vivono lavorando duramente e cercando di rispettare le regole, le idee e gli spazi altrui. L’ultimo rigo di pag.101 e le successive due pagine sono dedicate a “Giuseppe Maniaci, detto Pino, classe 1955, factotum di Telejato, una tv formalmente comunitaria dalla gestione un po’ ingarbugliata, che da anni irradia strali, sputi e insulti contro tutto e tutti, mafia, mafiosi, politicanti e vigili urbani dalla multa facile”.
 
Il ritratto che Molino traccia di Maniaci è cattivo e malevolo: si tratta di uno che ha un sindaco amico, che, solo per “guadagnare punti”, insulta i mafiosi, augurando loro il cancro, di un pregiudicato con “pesanti guai con la giustizia, che gli hanno aperto la via del carcere, di uno che va facendo “comparsate” in giro per l’Italia, che ha ospitato nella sua tv Renato Schifani, “presidente del senato e un tempo socio in affari con imprenditori poi condannati per mafia”. Molino parla di 13 condanne definitive, per furto, ricettazione, truffa aggravata e continuata, oltre a 46 pagine di carichi pendenti, sette condanne per emissione di assegni a vuoto, tre per furto, una per truffa e una per ricettazione, una “vicenda per mafia, da cui è uscito pulito, un rinvio a giudizio per l’esercizio abusivo della professione di giornalista e altre varie vicende che danno di Maniaci l’immagine di un delinquente, il quale, grazie all’antimafia, è riuscito a rifarsi una verginità, a ritagliarsi un ruolo e a conquistare la notorietà: ”Oggi in Sicilia si autonominano paladini dell’antimafia pregiudicati con fedine penali da record, guitti di provincia, talvolta persino gli stessi mafiosi”.
 
Da dove e perchè tanto livore? Molino e il collega Angelo Vitale, hanno avuto già modo, da tempo, di esprimere le loro accuse su un blog da loro stessi promosso, “Liberamente”. Dietro sembra di leggere che ci stia la rabbia di chi, credendosi un professionista della comunicazione, sia stato soppiantato da una persona che invece non ha niente a che fare con i canoni ufficiali del giornalismo, che non può parlare di lotta per la legalità, in quanto lui stesso non la rispetta o non l’ha rispettato, avendo, per contro ricevuto attestati di solidarietà e collaborazioni da ogni parte d’Italia. Indubbiamente, secondo Molino, da parte di gente che non conosce bene Maniaci e i suoi trascorsi. Non si tratta solo di un problema d’invidia, ma anche di personale risentimento nei confronti di un metodo di lotta che scende direttamente sul campo e lavora dentro di esso, rispetto alla permanenza dietro a una scrivania o dietro a un computer. Alla lettura del suo telegiornale hanno dato un contributo personaggi degni del massimo rispetto, dai giudici Ingroia, Morosini, Caselli, a don Ciotti, a Forgione e ad Orioles, che per diverso tempo hanno ricoperto la carica di direttori del telegiornale.
 
C’è da chiedersi a chi giova tutto ciò: se ci si può accreditare come giornalisti come detentori di esclusive competenze e conoscenze recepite su vari canali diversi da quelli delle inchieste sul campo, screditando chiunque altro provi a fare ombra a questa immagine, e quindi, se è giusto e corretto isolare chi è già abbondantemente esposto, a causa della sua attività informativa, alle ritorsioni mafiose. Molino sembra non rendersi conto che quella dell’isolamento, del cordone sanitario per proteggersi da chi è ritenuto un corpo estraneo rispetto alle regole adottate dalla società e dai gruppi di potere dominanti, è una tecnica raffinata che fa parte, a pieno titolo delle regole usate dai mafiosi, che partono dalla diffida, alle minacce, passano agli attentati dimostrativi e infine alla morte. Ecco perchè le pagine riservate a Pino Maniaci sembrano ricordare il comizio che Mimì Bacchi, deputato regionale del PCI, venne a fare a Cinisi, una settimana prima della morte di Peppino, parlando di lui e dei suoi amici come degli straccioni sporchi e di figli di papà che giocavano a fare i rivoluzionari: quello fu il benestare, anche da sinistra, per l’eliminazione di Peppino, di cui l’autore cita appena il nome concludendo il tutto con la generale tendenza a fermarsi alle parole, alle ricorrenze, alle cerimonie antimafia alle quali aderiscono anche i mafiosi.
 
Pino Maniaci, in un commento alla sua tv ha parlato di “mandanti morali” di possibili gesti di cui, con il clima che c’è a Partinico, egli stesso potrebbe essere vittima. Rimane il fatto che, con tutti i suoi difetti, Telejato è la tv privata più seguita in una zona ad alta densità mafiosa che da Partinico si estende a Corleone, da Alcamo a Cinisi, che porta avanti un progetto di cambiamento delle regole della società e che costituisce una fonte insostituibile di notizie di cronaca, di cultura, di politica. I guai giudiziari di Pino Maniaci sono cominciati da quando i Giudici Falcone, Di Lello e De Francisci spiccarono nei suoi confronti, grazie alle inesatte informazioni di un pentito, un mandato di cattura rivelatosi alla fine sbagliato, a causa di un’omonimia con un cugino dello stesso Maniaci.
 
Nei riguardi di Molino dice: “Chiunque porta avanti il lavoro di giornalista libero da condizionamenti non può essere additato al ludibrio e al disprezzo della società: corriamo il rischio di usare i metodi gangsteristici del killer a pagamento Feltri o quelli dell’isolamento morale in cui sono vissuti Peppino Impastato e i suoi compagni. Se volessi usare la stessa malevolenza potrei dire che il padre di Molino, che ancora oggi lo mantiene, ha avuto in affitto, per molti anni, un negozio di proprietà dei mafiosi Nania-DiGiorgio che Molino ed Angelo Vitale hanno spremuto soldi alle amministrazioni comunali amiche per organizzare iniziative inconsistenti, con costi irrisori e assolutamente sproporzionati rispetto a quanto stanziato. Ma non voglio scendere sullo stesso campo, anche perché credo che chi si occupi di antimafia, dal professionista al dilettante, non debba essere esposto al pubblico ludibrio, come ha fatto qualcuno che ha fotocopiato la mia fedina penale e l’ha distribuita, a tutti i paesi del circondario: valuterò, assieme al mio legale, se ci sono gli estremi per un procedimento penale, ma solo per tutelare il mio nome e il mio lavoro”.
 
Oggi Maniaci è stato interamente riabilitato, ha una fedina penale pulita, vive sotto tutela da parte delle forze dell’ordine, ha ricevuto l’iscrizione all’albo dei giornalisti e continua il suo lavoro giornaliero tra l’ostilità di una piccola parte della popolazione, che non ama vedere in mostra i propri vizi e difetti, e tra l’ammirazione di molte altre persone che ne apprezzano il coraggio e, qualcuno dice, l’incoscienza. Non si è arricchito: Telejato può trasmettere solo produzione propria e un numero limitato di spot pubblicitari. Spesso lo studio televisivo si ritrova con la luce elettrica o il telefono tagliato, data l’impossibilità di far fronte alle spese di gestione. Per fortuna i ragazzi della redazione, in gran parte a gestione familiare, lavorano volontariamente e con entusiasmo: resta il timore che l’avvento del digitale non possa comportare la chiusura di questa esperienza assolutamente atipica ed originale nel campo dell’informazione

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