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Gioventù negata, ritratto di un Paese in declino

Svimez, Ocse, Istat, Censis. Sembrano gli acronimi di minacciosi servizi segreti e invece si tratta di entità che poggiano, in modo non meno inquietante e spietato, il proprio occhio vigile sulle nostre vite e sui nostri destini. Finendo puntualmente per tracciare, ormai da tempo immemorabile, un quadro del nostro Paese che più a tinte fosche non si potrebbe. L’Italia - e basta scorgere le quotidiane cronache della stampa nazionale ed estera per comprenderlo - è di fatto precipitata nella serie B dello scenario mondiale. Per gli atavici limiti che ne hanno sempre contraddistinto l'esistenza, soprattutto sul piano economico e per l'ingombrante presenza della criminalità organizzata, ma di recente anche a causa di una condizione sociale che penalizza drammaticamente le nuove generazioni.

Al punto che i giovani stessi, per quanto bistrattati da un sistema egoista e profondamente ingiusto, vengono ormai descritti come un segmento sociale che ha smarrito ogni ambizione e aspirazione, accontentandosi del penoso presente e soffocando il proprio talento. In realtà i ragazzi italiani, quell'infinita marea di ventenni, trentenni e ora perfino quarantenni messi ai margini della vita del Paese, avverte di essersi ridotta alla frustrante condizione di profughi di una "guerra civile generazionale". Dove il meschino individualismo dei padri ha regolarmente la meglio sul diritto al futuro dei figli. E quando si intuisce che la battaglia per vedere riconosciuto il proprio valore e le proprie competenze non vale più la pena di essere combattuta, perché in Italia nulla è più forte della cultura gerontocratica che impone la strenua difesa dei diritti acquisiti e delle rendite di posizione, allora non rimane che rassegnarsi alla sconfitta o fuggire.

Se davvero si vuole invertire la tendenza al declino del nostro Paese, è oggi vitale riaffermare il principio del merito. Occorre investire proprio nei giovani, mettendoli nelle condizioni di esprimere le proprie capacità per contribuire alla crescita complessiva della comunità nazionale che, invece, continua ostinatamente a marginalizzarli, principalmente dal mercato del lavoro. In fondo, in una realtà sociale che di giovani ne ha pochi, non dovrebbe essere arduo sforzarsi di compensare la loro riduzione quantitativa migliorandone la formazione e ampliandone le opportunità. La competitività parte da qui, dalla valorizzazione delle migliori energie e intelligenze di cui si dispone e non da quel meccanismo di massificazione al ribasso che preferisce mettere in risalto l'umanità culturalmente e moralmente più misera.

Prima che la crisi economica rivelasse tutto il peso della sua forza, il tasso di occupazione dei laureati under 30 si assestava sotto la media europea di quasi venti punti percentuali. Ora quel dato andrebbe rimpianto. Siamo il Paese che tiene di più i giovani alle dipendenze economiche della famiglia di origine anziché promuoverne il protagonismo nella vita civile e nel mondo del lavoro. Non è quindi soltanto la difficoltà a trovare un lavoro che deprime i ragazzi e li spinge ad andare via, ma gioca un ruolo decisivo pure la scarsa fiducia nella politica e più in generale nella classe dirigente del Paese, che da un lato rifiuta di favorire il ricambio generazionale restando avvinghiata alle proprie posizioni di potere, dall’altro si rivela non all'altezza delle sfide che ci attendono.

La prova più evidente del fallimento italiano, è proprio il gran numero di giovani altamente qualificati che abbandonano il Paese per cercare all'estero un riconoscimento altrimenti impossibile. Ed è qui che interviene il capzioso dibattito su come dover giudicare i nostri cervelli in fuga: sono dei coraggiosi o dei codardi? L'interessante documentario Italy love it or leave it prova a dare una risposta al gravoso quesito. I due protagonisti, Luca Ragazzi e Gustav Hofer, spiegano che è nella natura dei giovani inseguire il cambiamento, spesso sospinti dalla voglia di incontrare "buoni esempi" capaci di indicare la giusta strada. Il problema dei problemi, pertanto, è che oggi in Italia mancano maestri adatti al compito. Da ciò derivano lo smarrimento, la perdita di autostima, la rabbia che spinge a reagire all'egoismo con un egoismo ancora maggiore. E la società si sfibra.

A non venire mai meno, tuttavia, è la convinzione delle nuove generazioni che è giunto il momento di cambiare. Ma se è impossibile trasformare la società italiana, allora si cambia direttamente Paese. Sotto gli occhi di istituzioni impassibili che non fanno nulla per arrestare il fenomeno, per impedire la disfatta di una Nazione sempre più preda dei "peggiori".

Se si prende in esame il delicato fronte dell'occupazione, la situazione che caratterizza alcune parti della Penisola sta diventando tragica. I dati pubblicati da Svimez qualche giorno fa, ad esempio, evidenziano un netto peggioramento degli indicatori del mercato del lavoro. Nell'ultimo biennio il tasso di occupati è sceso di 153.000 unità nell'intero Paese, di cui più della metà nel solo Mezzogiorno. Al Sud ormai lavora meno di 1 giovane su 3. E se si considerano anche coloro che nel 2010 non hanno cercato un lavoro, il livello di inattività aumenta spaventosamente fino a toccare picchi di oltre il 25%. Fra il 2003 e il 2010, in particolare, gli inattivi meridionali sono cresciuti complessivamente di 750 mila unità. In tal senso, le regioni più disagiate sono la Sicilia, la Sardegna e la Campania.

Il problema del lavoro, ovviamente, è direttamente connesso a quello della formazione. Secondo il Rapporto Ocse 2011 sull'educazione, l'Italia investe molto poco in istruzione. Il nostro Paese, infatti, riserva alla scuola appena il 4,8% del Pil, di gran lunga sotto la media europea del 6,1%. Per quanto riguarda, inoltre, l'investimento per singolo studente, l'Italia è il Paese con il minor incremento fra quelli dell'area Ocse. Molto ridotte sono anche le risorse per l'istruzione messe a disposizione dai privati, che corrispondono solo all'8,6% della spesa totale. Nel dettaglio, la forbice italiana della spesa per studente è compresa fra gli 8.200 dollari della scuola dell'infanzia e i 9.600 dell'università. L'analisi è più grave di quanto si possa credere, poiché le cifre mostrano l'entità del gap fra l'Italia e gli altri Paesi in tema di investimenti sul futuro. E l’Ocse non manca di far sentire il suo grido di allarme: per i ragazzi italiani, già penalizzati da un sistema bloccato, è più dura trovare occupazione anche perchè rispetto ai coetanei europei si diplomano e qualificano in misura assai minore.

Quando si discute di emergenze nazionali sono pochi, specialmente nei media ufficiali, a citare lo scarso livello di istruzione e di preparazione culturale. Eppure, continuando a emigrare all'estero i cervelli migliori o comunque a rimanere esclusi dal circuito della mobilità sociale, in una realtà in declino come quella italiana bisognerebbe preoccuparsi e non poco. L'8 settembre si è celebrata la Giornata internazionale dell'alfabetizzazione che ha portato alla luce, per quel che ci riguarda, dati scioccanti: il 38% degli italiani è fuori dalla fattispecie della Costituzione che prevede l'obbligo scolastico. Tra i più giovani, un ragazzo su quattro che termina il percorso di studi della scuola media inferiore non sa leggere e scrivere in modo corretto né contare. Detta ancor più brutalmente: solo un italiano su cinque possiede gli strumenti minimi di lettura, di scrittura e di calcolo indispensabili per orientarsi nella moderna società. Per un totale di oltre 6 milioni di analfabeti. Sono cifre che lasciano poco spazio ai distinguo, ai "se" e ai "ma".

Uno degli errori in cui spesso incorre la politica, è quello di ritenere che una società più o meno opulenta equivalga a una società di fatto istruita o quanto meno informata. E che quindi l'analfabetismo si annidi soltanto laddove c'è miseria. Una società che si racconta continuamente come uno dei più grandi Paesi del mondo, difficilmente può riconoscere la presenza di altrettanto grandi sacche di arretratezza al proprio interno. Con la conseguenza che la sottovalutazione del problema, o perfino la sua ostinata negazione, finisce per determinare un vero e proprio cortocircuito sociale.

La verità è che in Italia mancano del tutto politiche di sostegno alla formazione permanente. Perché storicamente conta più il presente del futuro. L'Istat, nel suo Rapporto sulla situazione del Paese dello scorso anno, evidenzia questa carenza in un capitolo interamente dedicato alla conoscenza, al livello d'istruzione della popolazione, al valore dei diplomi, alla ricerca scientifica e all'innovazione. E' un documento fondamentale per comprende dove sta andando l'Italia e come affronta le difficoltà dell'attuale periodo non soltanto dal punto di vista economico ma pure sul piano sociale e culturale. Perché in generale, il livello d'istruzione di una popolazione e l'organizzazione del sistema scolastico e di formazione professionale sono fattori che possono aiutare ad affrontare le situazioni di crisi o costituire, al contrario, un elemento frenante.

Nel nostro Paese, i sistemi d'istruzione e di formazione non sono mai riusciti fino in fondo ad assumere la sfida della globalizzazione, e quindi a preparare generazioni in grado di affrontare con competenze multiple i problemi posti dalla competizione mondiale e dalla crisi economica. In proposito, il confronto internazionale relativo alle percentuali di ricercatori operanti nelle aziende e nelle università è sconfortante. La stessa spesa statale complessivamente destinata alla ricerca è di poco superiore al punto percentuale di Pil, decisamente al di sotto della media europea. E spostando l'attenzione sull'educazione il quadro diventa ancor più deprimente. Secondo il dossier dell'Istat, infatti, gli aspetti particolarmente critici riguardano la situazione dei giovani fra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, non conseguono competenze basilari e non sono in grado di utilizzare i nuovi strumenti tecnologici di informazione e comunicazione. Sono i cosiddetti "nullafacenti", di cui l'Italia detiene il triste primato europeo ormai dal lontano 1995.

Infine il Censis, secondo il quale, come emerge dal recente Rapporto sui giovani e il mercato del lavoro, in Italia la laurea non paga. I nostri laureati lavorano meno di chi ha un diploma e meno dei laureati degli altri Paesi europei. Al contrario di quanto accade ad esempio nel Regno Unito, in Francia o in Germania, dove si registrano valori che sfiorano il 90%, il tasso di occupazione fra i 25-34enni italiani in possesso di laurea è del 66%. E pur se i giovani diplomati incontrano meno difficoltà ad accedere al mondo del lavoro rispetto ai laureati, la media degli occupati si mantiene a livelli bassi in quanto l'altro record negativo del nostro Paese è quello di avere la cifra più elevata in Europa in quanto a dispersione scolastica: il 29% dei trentenni non ha concluso la scuola secondaria inferiore.

Partecipazione, ricambio generazionale, merito, opportunità appaiono tutte come formule svuotate di senso dopo aver passato in rassegna questi numeri "apocalittici". E senza nemmeno poter coltivare un barlume di speranza se si guarda alla pochezza umana e morale dell'odierno panorama politico-istituzionale. No, non c'è fiducia. Il termine "futuro" risuona stancamente negli slogan dei partiti al solo scopo di cristallizzare gli antichi privilegi dai quali i giovani sono scientificamente e perennemente esclusi. C'è solo il desiderio che quest'orrendo incubo nel quale da decenni viviamo possa presto svanire, per farci riscoprire l'orgoglio della cittadinanza. E c'è quella sensazione amara di sbigottimento, nel vedere i giovani stessi non fare nulla per riappropriarsi delle loro esistenze.

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