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Giornalista abusivo: in memoria di Giancarlo Siani

Lui era seduto di fronte a me. Dalla finestra del ristorante, potevo scorgere una prospettiva di Mergellina e uno spicchio del golfo di Napoli. Ma il panorama mi interessava poco. Ero magnetizzato da lui. Mai visti degli occhi così azzurri e una barba brizzolata così ben curata da sembrare di seta. Ricordo che mentre parlava agli altri commensali, con il suo tono altero e ben impostato, a un certo punto cominciai a dubitare di essere uomo allo stesso modo in cui lo era lui. Mettevo cioè in discussione di appartenere alla sua stessa specie. D’altronde lui era il direttore di un’importante testata nazionale e io uno scarto merdoso di quella professione: un giornalista stagista. Su di me si posavano occhi misericordiosi, che dispensavano solidarietà penosa. Non era la prima volta che il direttore mi portava a pranzo fuori con i suoi colleghi. Di fronte a me parlavano di qualsiasi cosa, senza farsi alcun problema. Calunniavano colleghi, confessavano misfatti professionali, preannunciavano scoop, spettegolavano persino sulle rispettive scappatelle. Non perché mi tenessero di gran conto o mi considerassero uno di loro. Semplicemente, non esistevo. Per loro, ero come un bambino di fronte al quale una donna può pensare di potersi spogliare senza conseguenze. In redazione lavoravo quanto loro. Certo, ne ero consapevole anche allora: non bravo quanto molti di loro. Però trovavo notizie, le scrivevo. E qualche volte i miei articoli li firmava qualcun altro. Ma, non mi sono mai lamentato: sapevo che faceva parte del gioco. La consideravo come una prova psicologica.

Poi quel giorno era seduto di fronte a me, il direttore mi rivolse la parola: «Perché hai scelto di fare il giornalista?», mi chiese. Domanda odiosa e retorica. Che quando sei agli inizi ti viene fatta in continuazione. È un supplizio. È come mettersi a parlare del tempo. Con la differenza però che il giornalista che guadagna più di due mila euro, te la rivolge con il tono languido (quello con cui si chiede a un bambino quanti anni ha e si attende che lui mostri timido la manina e te li indichi alzando le dita piccole e grassoccie) e un certo sadismo. Questa domanda misura infatti la distanza che c’è tra te e loro. Perché l’interrogativo sotteso è un altro: «Cosa cazzo ti sei messo in testa, brutta merda? Tu, proprio tu, vorresti, davvero pensi di poter diventare un giorno come me?». Ecco cosa pensano in realtà. Nessuno chiede, ogni giorno, a un medico specializzando o a un avvocato tirocinante: «Perché fai il medico o l’avvocato?». Il problema è un altro. Per chi è arrivato, il fatto che tu provi a fare il giornalista è una specie di capriccio.

Ecco perché quando mi veniva rivolta questa domanda ero sempre imbarazzato. Anche quando il direttore mi sollevò la puntuale questione, mi sentivo in soggezione. Ma oramai ero preparato. Da un po’ di tempo davo una rispostina che lasciava sbalorditi.

«Ho scelto di fare il giornalista perché voglio descrivere le contraddizioni della società capitalista e accelerarne il collasso». Ecco, in quell’occasione provai a cavarmi d’impaccio con la mia solita preparata risposta marxista leninista. La buttavo in politica. Funzionava sempre. Di solito, il mio interlocutore a quel punto faceva una risatina, se ne usciva con una frase sciocca del tipo: «Ma ancora esistono i comunisti…». Se aveva tempo da perdere cominciava a spiegare la sua visione del mondo oppure tirava i remi in barca e subentrava il silenzio. La mia risposta era un modo garbato per dire: «Fatti i cazzi tuoi».

Ma in quell’occasione, il direttore non ne fu sbalordito. Dopo aver pronunciato la mia frasetta, lo scrutavo per capire l’effetto che faceva. Lui continuò a parlare come se non avessi detto nulla. E cominciò a spiegarmi che non capiva questi giovani che si intestardivano a scegliere la strada del giornalismo. Strizzato nel suo doppiopetto Armani, mi diceva che era assurdo voler fare un mestiere dove si guadagna pochissimo e si lavora tanto e male: «Perché il giornalismo è morto. Non esiste più. Noi eravamo giornalisti. Ora ci siete voi che siete ignoranti, incapaci, riconcoglioniti dalla Tv e da Internet». Dopo di che, si ordinò una bella orata. Io di rimando, gli feci un sorriso di cortesia e continuai a godermi il pranzo, che lui gentilmente mi stava offrendo. Non era la prima volta che mi facevano quel tipo di discorso. Non me ne sentivo umiliato.

Ci rimasi male, invece, in un’altra occasione. Appena arrivato in una nuova redazione, mi chiese un caposervizio: «Di cosa vuoi occuparti?». Ci andai prima adagio: «Cronaca giudiziaria», dissi. E lui mi invitò a precisare: «Quale settore?». E io che provavo a occuparmi dell’argomento da un paio di anni, anche con qualche piccola inchiesta, risposi timidamente, sapendo di poter fare la figura del cretino: «Camorra, vorrei scrivere di camorra». Il tizio rise ininterrottamente per cinque minuti e chiamò a raccolta i colleghi: «Guardatelo», mi indicava con il dito, «ora tutti vogliono fare il Saviano della situazione». Feci spallucce e controllando i nervi del viso per evitare che mi scoprissero triste o umiliato, me ne tornai al mio computer.

Non so se anche Giancarlo Siani abbia avuto di queste esperienze. Siamo ovviamente quasi nel grottesco, nulla di tragico, non mi lamento. So che funziona così e mi limito a fare nel modo migliore il mio lavoro. Ora, sono un abusivo, ma scrivo ogni giorno di mafia ed ecomafia. Ma sono abusivo, proprio come lo era Siani. È una ben strana condizione ontologica. Essere abusivo vuol dire lavorare in una redazione, frequentarla quotidianamente, fare lo stesso identico lavoro che fanno i redattori (quelli che guadagnano 10 volte più di te). Ma dal punto di vista formale (contrattuale, per chi è più fortunato) non potresti farlo. E per questo sei pagato meno del dovuto. In più, da un momento all’altro potresti essere cacciato e non avresti il diritto di dire una parola. Il tuo essere abusivo i capi te lo fanno pesare come un favore. E li aiuti pure! Quando arrivano gli ispettori del sindacato, sei tu che scappi e ti nascondi, eppure soprattutto loro passerebbero dei guai. Ma, intanto ho la possibilità di scrivere. E questo è quello che conta. Nel frattempo, ho imparato a dare anche una nuova risposta alla domanda «Perché fai il giornalista?» . Ora mi compare in faccia una sorriso largo e tranquillo e dico: «Perché vorrei continuare il lavoro che a Siani hanno impedito di fare».

Giorgio Mottola
StrozzateciTutti.info

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