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Europa: una scelta tra federazione e rovina

"L’Europa è come noi l’abbiamo voluta fin qui e sarà quel che vorremo sia; se non un grande stato federale, un cumulo di eleganti e romantiche macerie".

Non v’è nulla di più pericoloso che pensare al futuro come ad una prosecuzione lineare del presente; vale a dire, come credere che nulla cambi o lo faccia con tale lentezza da consentire agli individui ed alle società dei comodi aggiustamenti. Non v’è nulla di più stolto che rifiutarsi di guardare al passato per trarne delle lezioni; che pensare che i nostri tempi siano, per una qualche ragione, affatto nuovi, e che possiamo godere, rispetto a chi ci ha preceduto, di vantaggi tanto grandi da sottrarci alle leggi della storia.

Cercando di volare un poco più alto del vocio dei mercati, di vedere un poco oltre l’immediato domani, appare chiaro che l’Europa tutto può permettersi tranne che continuare ad affrontare disunita un mondo già dominato da una gruppo di colossi economi e demografici; che gli europei, se continueranno a lottare gli uni contro gli altri per assicurarsi l’angolo più asciutto della caverna, si troveranno, tra breve, tutti a mollo.

Alcuni di loro contano di salvarsi grazie alla benevolenza dei novi potenti; altri di farlo ritagliandosi un ruolo di piccola potenza locale dentro un proprio lebensraum.

In realtà finiranno tutti per essere dei servi (magari come lo furono i greci dei romani, se si vuole essere molto ottimisti) alla mercé delle decisioni prese di chi ha tutto a cuore tranne il bene del nostro continente.

Stiamo commettendo, insomma, lo stesso errore che fecero i nostri potentati davanti all’emergere degli stati nazionali. Dal punto di vista spirituale, se mi consentite l’espressione, la crisi del progetto moderno, vecchia ormai di un secolo, è specchio quasi fedele di quella che incontrò l’ideale rinascimentale, suo diretto progenitore, nel momento stesso in cui si avvicinava al proprio compimento. Come gli italiani del 500, gli europei di oggi sono cinici ed incapaci di guardare oltre il proprio immediato interesse. Combattuti tra un senso di superiorità innanzitutto culturale nei confronti dei barbari “ultramontani” e la convinzione, sempre più profonda, di non aver altro da dare al mondo che lezioni di stile, non osiamo chiedere che di essere lasciati in pace, come se la pace fosse una gentile concessione e non una difficile conquista.

Ci riteniamo adoratori della ragione, come i nostri progenitori del secolo che iniziò con Pomponazzi, l’averroista “uccisore dell’anima”, ma nella nostra società l’irrazionale domina sovrano, mentre le nostre arti sono ridotte a stupire, scandalizzare, intrattenere, ma nulla più. Artisti ammirevolmente arrampicati su per la parete dell’ermeneutica, che mirano a rappresentare, commuovere e forse a denunciare, ma che certo hanno rinunciato a spiegare e ancor di più a guidare. Neppure manieristi, perché della Maniera è perlomeno il rispetto della forma; guitti per la diversione di una plebe sterminata e baldracche per gli appetiti, vellicati da una pletora di Aretini senza neppure troppa grammatica, di una elite senza valori.

La fine delle ideologie, in ultima analisi dell’idealismo che ha portato l’Europa al suicidio, anziché far emergere un sano pragmatismo, determinare una realpolitik volta all’affermazione di quei valori che sono alla radice della nostra civiltà, ha creato un vuoto che si è riempito solo del più banale materialismo, brodo di cultura del peggior populismo. Siamo, da capo Nord a Pantelleria, ormai solo attenti al nostro particulare; diamo ascolto solo ai politicanti che ci offrono facili scorciatoie, comode via d’uscita. Percorsi facilitati verso un futuro a cui chiediamo solo d’assomigliare al nostro, più o meno dorato, passato prossimo.

Un futuro che, invece, ci apparterrà solo se riusciremo, nei prossimi anni, anzi nei prossimi mesi, a comprendere come i nostri interessi di italiani o di tedeschi non possono che essere realizzati facendo il più generale interesse di tutto il continente.

Prima ancora, solo se comprenderemo che, malgrado i nostri difetti ed i nostri limiti, abbiamo ancora molto da offrire al mondo; che abbiamo costruito il nostro sistema sulle fondamenta giuste: possiamo aver sbagliato, ma non sono sbagliati i nostri valori. I nostri errori, le nostre tragedie, sono sorti, anzi, proprio quando di questi valori ci siamo dimenticati; quando abbiamo abbandonato i lumi per tornare ad immergerci nell’oscurità del nostro passato pre-classico.

Un buio in cui tornerebbe, nel giro di pochi decenni, un’Europa fatta di nazioni in competizione tra loro; sempre più povere, sempre più disperate, e preda sempre più facile di ogni estremismo. Un destino che non è affatto segnato se noi, cittadini ed elettori, sapremo resistere alle sirene dei nazionalismi e non ascolteremo le sibille che già proclamano il fallimento di quel che neppure abbiamo cominciato a fare.

L’Europa è come noi l’abbiamo voluta fin qui e sarà quel che vorremo sia; se non un grande stato federale, un cumulo di eleganti e romantiche macerie, magari, per i più fortunati, da contemplare restandosene in villa scrivendo, nel tempo libero, la cronaca della sua distruzione.

Di Guicciardini, però, i secoli ne ammettono ben pochi.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.169) 7 giugno 2012 15:43

    I miei complimenti. Ottimo articolo. Da cittadino europeo che per lavoro vive lunghi periodi in 2 grandi federazioni, gli Stati Uniti d’America e la Federazione Russa concordo pienamente. Non saremo mai competitivi e grandi a livello globale se non facciamo nascere una Federazione Europea. Indietro non si torna, quasi 70 anni di pace ed integrazione europea dovrebbero averci insegnato qualcosa, ma se invece ora fallisce tutto sarà la fine del sogno europeo.

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