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Estetica della protesta: la narrazione mediatica degli scontri di piazza

In un articolo comparso recentemente su culturevisuelle.org, Lune Ulrike Riboni, che studia le espressioni visuali dei movimenti sociali, fa il punto sull’utilizzo mediatico delle fotografie e delle immagini delle manifestazioni di protesta, concentrandosi sul caso italiano.

In Italia, il rapporto manifestanti-forze dell’ordine è da sempre al centro delle attenzioni degli organi di informazione, coinvolgendo gruppi sociali e spazi di discussione molto diversi tra loro. La maniera in cui i media trattano le testimonianze delle proteste (che si moltiplicano col moltiplicarsi dei dispositivi di registrazione e condivisione in tempo reale, i contributi testimoniali non professionali alla Youreporter) è oggetto di analisi e confutazioni. Qual è la strategia narrativa di cui gli organi di stampa si servono per contestualizzare le fotografie? Quelle immagini dicono qualcosa in sé o di esse non ci resta che l’interpretazione, o la manipolazione, che i giornali ne rendono?

La questione si fa tanto più complessa a proposito del giornalismo partecipativo. I video registrati con uno smartphone che riprendono, ad esempio, le sequenze di una manifestazione, vengono sempre sottotitolati, quindi spiegati dai giornali. Al dato bruto della testimonianza (ammesso che tale “grado zero” esista) viene aggiunta l’impronta della didascalia. Ciò fornisce all’immagine una sua leggibilità, che a volte diviene sovraleggibilità, spinge cioè nella direzione interpretativa sbagliata.

Cosa si potrebbe suggerire alla strategia ermeneutica dei media? Di “lasciar parlare l’immagine”? O forse, più semplicemente, visto che sempre di giornalismo si tratta, di ricostruire il contesto e il senso delle testimonianze visive con il maggior rigore possibile?

12 aprile 2014. A Roma sfila il corteo contro la precarietà e l’austerity (il governo Renzi aveva appena presentato il Jobs Act) e per il diritto alla casa. Spunta una foto, ormai già celebre: un giovane manifestante ferito copre una ragazza, mentre un poliziotto incombe sui di loro. I giornali si concentrano sull’atto amoroso ed eroico, l’abbraccio che chiude i due dal caos di fuori, delineando un mondo di valori inaugurato e chiuso in sé da quel gesto che dice la resistenza contro la generica violenza che esplode tutto intorno.

Su Repubblica arriva il commento:

“È in mezzo ai volti coperti dai passamontagna neri e ai caschi con la visiera dei celerini, ai manganelli e alle fionde, al fumo e alle pietre, alle scene sempre uguali degli scontri di piazza, rigurgiti di rabbia senza sbocco, fotogrammi già visti e già vecchi, che rimbalzano freneticamente in testa ai giornali online per qualche ora, per spegnersi nella cenere già fredda dei titoli di stamattina, all'improvviso compaiono loro. Hanno il volto scoperto, innanzitutto. Non erano lì a cercare la rissa, lo scontro. Ci sono finiti in mezzo. Giovanissimi. Un ragazzo e una ragazza, sdraiati a terra, stretti come amanti lui sopra di lei, la copre, le fa da scudo. «Ti proteggerò dalle paure... dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo»: non riesco a pensare che alla Cura di Franco Battiato, guardando gli occhi semichiusi di quel ragazzo sconosciuto con la testa insanguinata.”

l gesto è già un “abbraccio-simbolo”. Ma simbolo di cosa?

Il mosaico delle testimonianze si estende: una nuova foto e un video di Servizio Pubblico mostrano un funzionario di polizia che calpesta la ragazza stesa per terra. 

Lo stigma è unanime: il dibattito si accende sulle responsabilità delle forze dell’ordine, si parla di identificativi sulle divise dei poliziotti. La scena inizia ad acquistare un altro senso: quei manifestanti non stanno interpretando una canzone di Battiato, non “sono finiti lì per caso”. In effetti, basterebbe chiedere a chi la foto l’ha scattata. Dopo pochissimo tempo escono fuori altre foto che ritraggono Andrea Coltelli, il giovane dell’abbraccio-simbolo, mentre partecipa attivamente alla protesta (immagini del TG2 lo “incastrano” mentre fronteggia la polizia con una bottiglia rotta in mano). Il personaggio-simbolo rapidamente creato dai giornali acquista un nuovo significato: ha aggredito la polizia, prima di essere aggredito. Ormai gli elementi narrativi che mirano a nascondere il conflitto o almeno pacificarvi i lettori non tengono più. I due ragazzi finiti per caso nell’odio cieco della violenza operata dai manifestanti e dai poliziotti cattivi diventano adesso parte attiva di un processo in cui sono in gioco responsabilità personali e civili, nella complessità ideologica e sociale della protesta. Di questa complessità, per esigenze anche comprensibili, i giornali tacciono. C’è un abbraccio-simbolo, un abuso-simbolo e un comportamento sbagliato-simbolo. Anche se ogni nuovo simbolo contraddice quello precedente, nella coerenza della storia.

17 novembre 2013. La Stampa pubblica la foto di una ragazza che bacia il casco di un poliziotto, durante le manifestazioni No TAV in Val di Susa:

“Non ci sono rumori, in quel bacio, non ci sono urla, non ci sono insulti, non c’è rabbia, non c’è nient’altro che questo respiro, come in tutti i baci del mondo, che sono segni di pace, non solo di amore”.

L’immagine è troppo potente per non sfruttarla, è espressiva, comunica qualcosa. Ma cosa? Cosa dice quella fotografia, il bacio tra manifestante e poliziotto? È un appello, seppur provocatorio, alla non violenza? L’articolo de La Stampa non parla del contesto, la manifestazione è il contorno superfluo che non dice nulla in più della potenza umana di quella fotografia. Gli attivisti No TAV su Facebook prendono le distanze dal gesto “amichevole”, ma all’indomani dello scatto la ragazza nell’immagine esce allo scoperto chiarendo che alla base della sua provocazione c’è ostilità e non certo conciliazione. Gli organi di informazione inaugurano allora un altro racconto: colpo di scena, la pacifista è una provocatrice. Immediatamente viene descritta come una figlia della borghesia milanese che ridicolizza un coetaneo siciliano che di mestiere fa il poliziotto (l’ormai classica lettura pasoliniana, che oltretutto meriterebbe un approfondimento). A dicembre, la ragazza verrà denunciata per violenza sessuale da un sindacalista del Coisp.

I media trasformano manifestanti&poliziotti in un vero e proprio genere letterario: descrivono sdegnosamente il comportamento agghiacciante degli agenti che applaudono i colleghi condannati per la morte di Federico Aldrovandi perché tale condotta trasforma quei personaggi in cattivi assoluti, inconciliabili, antagonisti che nessuna narrazione potrebbe mai salvare (e lo stesso vale, ormai, per i responsabili del massacro della Diaz). I media fantasticano l’ipotetica conciliazione, almeno iconografica, figurativa, tra i due mondi. Il racconto dello scontro attende la mossa narrativamente sorprendente, il coup de théâtre che cambi i ruoli dei personaggi e i loro rapporti di forza: un abbraccio, un bacio, una carezza.

15 ottobre 2011. Roma, manifestazione in piazza San Giovanni. È il momento della carezza-simbolo. Repubblica non vede l’ora:

"La ragazza e il poliziotto si guardano, parlano, sembrano capirsi. È un attimo, un "secondo rubato" come ha scritto qualcuno su Facebook, uno spicchio di pace in un giorno di guerra. Sono vicini, quasi volessero superare un checkpoint invisibile, lei fa parte del gruppo dei pacifisti, lui le appoggia paterno una mano sulla spalla, con un gesto che assomiglia ad una carezza: non siamo nemici, non doveva andare così”.

La stampa ammicca alle ragioni della piazza (purché pacifica e possibilmente composta da certe categorie: gli studenti, ad esempio) e per preservarla in un'innocente purezza la isola dai violenti (“lei fa parte del gruppo dei pacifisti”): in questa foto stanno i buoni, non i poliziotti cattivi, né tantomeno i fantomatici black block, ma i modelli di un'umanità positiva a tutti i costi che oltrepassa le coordinate semiotiche della manifestazione per farsi ecumenica, universale. La foto dice ciò che si vuole che dica: nella violenza del 15 ottobre, a Roma, si intravede un barlume di giustezza e di speranza, che questi due attori incarnano, o forse recitano, alla perfezione. Mediazione, infine, è ciò che i media cercano, la sutura di quella ferita, un ponte in quel solco che separa l’al di là e l’al di qua degli scudi: un tratto, dunque, o forse un trattino, fragile, lo stesso che avvicina un gesto alla sua simbolizzazione coatta (il "–" dell’abbraccio-simbolo, del bacio-simbolo, della carezza-simbolo).

Fate l’amore, non le manifestazioni”, scrive Riboni a conclusione del suo articolo, “l’abbandono della conflittualità è intrinsecamente il riconoscimento delle istituzioni cui ci si vuole opporre”. Ecco allora cosa vogliono dire, quei simboli che la stampa vede e istituisce nelle immagini: la ricerca di un forzoso compromesso all’interno dello scontro, la semplicità narrativa nella complessità del reale, la sintesi nell’antitesi. La leggibilità, infine, ma di un racconto ridotto e stravolto.

 

 

Foto: Wikimedia, ©Yara Nardi, ©Yara Nardi, ©lapresse, ©Fotogramma

 

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.104) 31 maggio 2014 11:57

    Se fossi un Poliziotto al servizio dello Stato mi porrei questa domanda.

    Sono al servizio del Popolo, 
    ho dei farabutti, che approfittano per fare i loro loschi affari?

    Perchè devo intervenire quando il Popolo manifesta Pacificamente Contro Il mal governo?

    E stare immobile quando i black bloc sfasciano tutto?

    Il mio compito, non è quello di fare si che non avvengano infiltrazioni di violenti?

    Chi è che infiltra agitatori violenti?

    Come mai i violenti, sono vestiti in modo riconoscibile?
    a questo punto, domanderei ai miei superiori a chi ho prestato giuramento
    Alla Repubblica Italiana, Ho alla repubblica dei farabutti. VITTORIO

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