• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > "Essere Ricardo Montero": un viaggio verso l’allucinazione

"Essere Ricardo Montero": un viaggio verso l’allucinazione

L’irruzione di un elemento “perturbante” – di una vecchia fotografia, di una lettera o di un diario ormai dimenticati, di un luogo o di un oggetto amato nell’infanzia e caduti nell’oblìo, o ancora di un altrodi una persona cioè più o meno significativa, e così via – finiscono sovente per dare origine ad un processo di ricostruzione-analisi della propria biografia, in cui si riscoprono di volta in volta elementi nuovi, assolutamente insospettati e, dunque, difficilmente riconoscibili.

Di qui l’autobiografia immaginaria del nostro Ricardo Montero, personaggio, io immaginario nato dalla sovrapposizione di letture, per così dire, perturbanti: il Dottor Pasavento di Enrique Vila-Matas, Aura del messicano Carlos Fuentes. E dalla suggestione di una fotografia apparsa nella copertina del Dottor Pasavento, in cui è ritratto Emmanuel Bove con sua figlia Nora nei Giardini di Lussemburgo di Parigi nel lontano 1924.

Sin dalle prime pagine del romanzo emerge il problema dell’autonomia e dell’appartenenza: se – argomenta Gianfranco Pecchinenda – da giovani ci si immagina di poter affermare la propria individualità, la propria originalità, insomma ci si ripropone di rendere la propria persona, dunque, autonoma e ben distinguibile dalla massa degli altri, di tutti coloro i cui nomi abitano, con te, il mondo (p. 11 e segg.), quando poi la vita diventa soprattutto una questione amministrativa, tale bisogno lascia spazio a una ricerca sempre più pressante di legami e appartenenze, di quegli ancoraggi che possano fornire un senso alla propria identità. Così più che all’originalità, all’individualità, alla singolarità, all’autonomia della propria persona e del proprio nome, ci si mette alla ricerca di coloro che condividono la comunità immaginaria, familiare, parentale, nazionale, etnica, religiosa, razziale o quant’altro.
 
Ci si ritira, dunque, verso quei modelli originari, quelli che i nostri padri ci avevano suggerito agli inizi della nostra vita, mettendo in atto processi di identificazione attraverso la costruzione di solide appartenenze affettive ed emotive. E di qui un’ossessiva e talvolta inconsapevole ricerca di un’istituzione alla quale delegare: si rientra così, pacificati, nell’indistinto gruppo d’appartenenza.

E' chiaro il nesso con l’opera classica di Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, così come è evidente la più pronunciata inclinazione del nostro verso la Gemeinschaft, quella forma comunitaria, fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea, predominante in epoca pre-industriale, in contrasto con la Gesellschaft, la forma societaria, basata sulla razionalità e sullo scambio, dominante nella moderna società industriale.

Per dirla con Paul-Luis Landsberg, potremmo immaginare che l’autore prospetti, lungi dall’individualismo nominalistico che ha caratterizzato la modernità occidentale, un ritorno al realismo epistemologico, proprio delle società pre-moderne in cui, sul piano sociologico – secondo lo studioso il processo di costruzione della società, così come si svolge nel mondo esterno, è parallelo al processo di costruzione dei concetti quale si svolge nel mondo interno – la società o (per meglio dire la comunità) possiede una “realtà” superiore rispetto alle singole parti (cioè agli individui) che la compongono.

Ne "La teoria sociologica della conoscenza" (2002) Landsberg afferma che il tipo ideale di questa configurazione sociale e le caratteristiche psicologiche dei suoi abitanti sono descritti perfettamente da Lucien Lévy-Bruhl nell’Ame primitive. Per quest’autore il Noi della stirpe precede l’Io e il Tu ed il genere è colto prima dei suoi individui. La tradizione domina incontrastata (Lévy-Bruhl, 1990). Naturalmente una società del genere ha una visione temporale che tende o si preoccupa delle origini delle cose e conseguentemente è più portata a sviluppare una sorta di disposizione metafisica e mistica. Al contrario una società “individualista” tenderà a svalorizzare il passato (la tradizione e i morti) e ad essere più relativamente materialista.

L’accento sulla comunità che emerge dalle prime pagine del romanzo di Pecchinenda sembra contrastare con la consolidata idea secondo cui la società interattiva, innescata da Internet, favorisca la creazione di legami deboli ed una forte tendenza all’individualismo – non dobbiamo dimenticare, infatti, che il nostro Ricardo, appunto, nasce dapprima come personaggio immaginario, poi come entità virtuale, in rete. E proprio in rete nascono, vivono, si sviluppano quelle che Barry Wellman chiama “comunità personalizzate”, incentrate su network io-centrati. E ciò rappresenterebbe la privatizzazione della socialità, una relazione individualizzata con la società, non già un attributo psicologico, bensì un modello specifico di socialità.

Mentre alcuni osservatori celebrano diversità, pluralità e scelta, invece Robert Putnam teme la “cyberbalcanizzazione”, come modo di accentuare la dissoluzione delle istituzioni sociali e il declino dell’impegno civico. Per converso, Pierre Lévy, una sorta di traduttore del pensiero di Teilhard de Chardin, che parlava, ebbro di fervore religioso, di Noosfera, vale a dire di un cervello planetario, un’entità pensante cosmica, ritiene che le più recenti tecnologie informatiche producano una nuova forma di umanesimo dove si passa dal cogito cartesiano al cogitamus.

Lungi dal fondere le intelligenze individuali in una sorta di magma indistinto, l’intelligenza collettiva sarebbe un processo di crescita, differenziazione e di mutuo rilancio della specificità. Eppure, leggendo Essere Ricardo Montero, si evince con chiarezza l’idea secondo cui l’individuo non aspira radicalmente alla libertà, sempre e comunque, dunque alla singolarità e specificità. Si preferisce, qui, appartenere a qualcosa, che, tuttavia, ha sempre a che fare con un cappello. Il senso di autonomia è insito nel mestiere di scrittore: Pecchinenda, sulla scia dello scrittore uruguayano Carlos Liscano, ritiene che la cosa importante per uno scrittore non sia tanto ciò che scrive, bensì quella specie di delirio che, invadendoti, ti porta a parlare da solo e che per certi versi costituisce un’ancora di salvezza: "il delirio di credersi uno scrittore" (p.17).

C’è chi pretende di poter avere una vita normale e non pagare il prezzo dell’isolamento che la scrittura richiede. Chi vuol fare lo scrittore, continua Pecchinenda, deve innanzitutto inventarsi un altro, un individuo che si assumerà il dovere di scrivere le sue opere. L’autore lamenta uno sfasamento esistenziale dovuto al non voler accettare il fatto che uno scrittore, come chiunque altro, si ritrova a vivere un’esistenza sociale assolutamente comune.

Ci si ritrova dinanzi a due soluzioni divergenti: da una parte la follia, dall’altra un’ironia senza scampo dovuta all’accettazione quasi irrimediabile di un universo indipendente, quello della letteratura. Ed inoltre ci si può lasciar trasportare nelle rassicuranti routines, oppure si può vivere da artista, esistendo e manifestandosi soltanto nelle proprie opere: l’unica via d’uscita è quella di barcamenarsi tra le due esistenze. Lo scrittore non può, dunque, prescindere dalla sua condizione di individuo “normale”, le due anime coabitano in un essere solo e sdoppiato.

Nondimeno, la prima cosa da fare è inventarsi dei padri, i Maestri. Lungi dal mito illuministico che ha inteso valorizzare l’affermazione di un uomo finalmente libero dalle catene del passato e capace di scegliere – autonomamente, appunto – il proprio destino, ogni scrittore dovrebbe avere almeno due Maestri, giacché si sdoppia (p 26). Solo così è possibile intraprendere “un viaje hacia la lucidez”, un viaggio verso la lucidità: raccontare l’esistenza, prelevando con forza e determinazione le storie dall’oblìo e rivelandole pazientemente ai lettori.

Dunque, la letteratura, come la pittura, il teatro, il cinema in senso più generale, e quella forma più intima che è l’artificio dell’auto-narrazione, dell’auto-biografia, rappresentano degli autentici laboratori ed osservatori per la comprensione dell’identità, di quell’identità che ha bisogno per sopravvivere di recuperare l’oblìo e le proprie dimenticanze attraverso il supporto dell’immaginazione e dell’arte (cfr. Ferro, 1989; Semprùn, 1986; Pecchinenda 1999).

Ogni biografia può essere considerata una sorta di intreccio tra la storia personale di chi la racconta (che, come nel caso dell’autobiografia, può anche coincidere con il raccontato) ed un insieme di memorie collettive, o anche di “miti”, che costituiscono in qualche modo il tessuto, il quadro teorico di riferimento all’interno del quale la biografia stessa acquista un senso (cfr. Pecchinenda,1998). Per dirla con Wilhelm Schapp, “noi siamo sempre coinvolti in storie”. Il filo conduttore della proposta fenomenologica di questo studioso non è tanto la percezione husserliana della cosa, quanto il prioritario sorgere di quest’ultima nelle storie, nelle narrazioni, negli intrecci.

Diversamente dal romanzo – come fa notare Ricoeur, in Soi même comme un Autre – che si dispiega in un intrigo di un mondo proprio, conchiuso. Un asse connette le storie e il mondo esterno, che è il luogo delle configurazioni che Schapp chiama le choses-pour. La cosa-per deborda il campo degli utensili: ciò che la caratterizza è il suo sorgere, emergere, proporsi insieme con una storia, tutt’uno con una narrazione. Per Schapp, al di fuori delle storie, la cosa (sia come utensile, sia come oggetto culturale) non sarebbe nulla. In tal senso la percezione o l’allucinazione significa qualcosa solo in quanto inserita in storie, in tessuti narrativi.

Pecchinenda cita, nel corso del romanzo, Jorge Luis Borges, il quale sosteneva che, a lungo andare, tutti gli esseri umani diventano memoria, e dunque finzione. Alla lunga, insomma, tutto diventa memoria, e dunque si trasforma in narrazione, in intrecci più o meno complessi di prodotti dell’immaginazione ai quali accordiamo, a seconda dei casi, un maggiore o minore grado di “realtà” (p. 62). Questa autobiografia immaginaria viene a confermare l’affermazione capitale di Rimbaud: “Je est un autre”, nella quale l’identità si è fatta alterità irrimediabile, distanza, separazione, divorzio” (cfr. Boatto, 1997). A tal riguardo, Pecchinenda scrive: “esiste nell’uomo una realtà ineludibile e che riguarda il doppio (Il sosia), che assume sostanzialmente la forma di una vita segreta e inconfessabile, a meno che non si faccia ricorso […] alla scrittura letteraria: la fuga da se stessi è impossibile; un sosia ci accompagna sempre e comunque, inesorabile e implacabile, in ogni luogo e in ogni momento, al fine di convincerci della sua propria ineluttabilità” (p.31).

La presenza di un doppio o di un sosia implicherebbe un tipo di società nella quale fosse prevista la possibilità dell’esistenza di un Dio di fronte al quale il personaggio in questione possa immaginare di possedere dentro di sé un’anima, uno spirito, una coscienza o comunque una sorta di homunculus con il quale dover in un modo o nell’altro confrontarsi, misurarsi, legittimarsi (pp. 18-19). Una delle conseguenze più significative della centralità di cui ancora oggi godono le concezioni “sostanzialiste” o “essenzialiste” dell’identità è quella di accreditare una vera e propria interpretazione ideologica del sé (cfr. Pecchinenda, 2008).

Tale ipotesi presuppone che dentro di noi ci sia una speciale entità autocosciente la quale, originariamente libera, decide il corso delle azioni del corpo in cui è installata. Detto altrimenti, esisterebbe all’interno di ogni uomo un homunculus, ovvero una sorta di essere in miniatura che compie, in scala ridotta e non immediatamente manifesta, ciò che noi esteriorizziamo con i nostri comportamenti. La storia delle interpretazioni di questo homunculus è molto antica ed ha accompagnato il significato sociale attribuito alla nozione di genio e di genialità ereditati dalla nostra cultura.

Ad esempio, i personaggi omerici – come a suo tempo spiegava magistralmente Eric R. Dodds – riconoscono chiaramente una distinzione tra azioni normali ed azioni compiute in stato di ate. Questo ate, questo stato d’animo che indica “l’annebbiarsi o lo smarrirsi temporaneo della coscienza normale” viene nella cultura omerica attribuito ad una o più entità esterne. Più precisamente, le azioni compiute in stato di ate vengono fatte risalire, indifferentemente, “o alla propria moira, o alla volontà di un dio, secondo che consideravano la cosa dal punto di vista soggettivo o oggettivo” (Dodds, 1978, p.11). Ora questa moira, pur non potendo essere considerata alla stregua di una vera e propria divinità personale, rappresenta tuttavia un più che probabile antesignano del Genius, nonché delle cosiddette teorie dell’homunculus.

Questo ate, questo stato d’animo attanaglia Ricardo, quando si muove nella sua amata Parigi. La dimensione dello spazio serve, qui, a riconoscere in quel luogo specifico e socialmente riconosciuto quello che può essere considerato il territorio del proprio Sé. Si tratta, in sostanza, di quell’aspetto della costruzione sociale dell’identità attraverso la quale gli individui, e il nostro Ricardo, tendono a collocare se stessi all’interno di uno spazio dotato di un senso e un significato, in cui si possa vedere insomma realizzato il cosiddetto bisogno di appartenenza locativa.

C’è poi sullo sfondo la questione riguardante le origini argentine di Ricardo, e di lì un ulteriore bisogno di appartenenza, nonché quella dimensione locativa (Sciolla, 1983) attraverso la quale Ricardo si colloca all’interno di un campo simbolico, definendo e tracciando i confini, più o meno mobili, che delimitano i cosiddetti territori del Sé. In Essere Ricardo Montero l'idea è preponderante rispetto alla forma, e la distinizione tra autore e personaggio si fa labile, tanto da, talvolta, scomparire (come in Nieblas, di don Miguel de Unamuno). Danielle Sallenave in Don des morts scrive: “Come uscire da sé se non attraverso la letteratura, che mi mette al posto dell’altro e mi apre alla comunità di un dolore condiviso?”, ed ancora: “è nella letteratura che la vita ordinaria si riscatta e trasfigura”. L’idea non è quella di preferire alle vite comuni quelle nobili – i libri non sono un lusso riservato all’élite –, ma di portare un complemento indispensabile alla vita. E certi luoghi – argomenta Tzvetan Todorov ne L’uomo spaesato – si prestano a questo meglio di altri (1997).

I libri, dunque, sono necessari. Prima di tutto perché ci mettono in contatto col passato (sono il “dono dei morti”), ci trasmettono infatti un’eredità fatta di tutta l’esperienza umana, ma, al contempo, ci permettono anche di inscrivere la nostra piccola vita nella trama della storia mondiale. E d’altra parte, lungi dall’essere una mera evasione, ci portano a cogliere l’ordine e il progetto della vita, quindi a scoprirne il senso. I libri di narrativa e di poesia sono in questo più efficaci degli altri: per essere compreso il mondo deve essere affiancato da un doppio immaginario. E, da questo punto di vista, Essere Ricardo Montero è efficacissimo.

Ad un certo punto della narrazione irrompe il caso del piccione, che partecipa dell’idea secondo cui gli insetti, le mosche o anche altri volatili, sono sempre stati dei perfetti interpreti delle metafore – anche le più profonde – attraverso le quali poter rappresentare l’irrompere dell’irrazionale, talvolta così improvviso e spiazzante, nella tranquilla quotidianità dell’esistenza umana (p. 66). Forte è l’eco de Il piccione di Patrick Süskind che viene a sconquassare l’ordine metodico di un quotidiano che il protagonista, Jonathan Noel, ha scelto di vivere: basta un piccolo essere, in apparenza insignificante, che si limita a guardarlo immobile, a scombussolare la sua esistenza, facendo crollare tutte le sue proprie certezze.

Del pari, Ricardo combatte, invano, la presenza minacciosa e terrificante – e in quel terrore risiede proprio la sua essenza sublime – del piccione che pare non volerlo mai abbandonare; ritorna ancora, nel corso della narrazione, e della vita, quel qualcosa di cui si è detto sopra, e che ha sempre a che fare con un cappello, un evento improvviso e imprevedibile che squarcia il presunto senso della routine. Un evento terrificante e minaccioso, bello e sublime, immaginifico e reale, dolce e fastidioso, che incanta e tormenta, inquieta e allieta, avversa e sostiene, da cui non si può prescindere, e di cui si farebbe, al contempo, a meno. La vera dannazione è che, una volta incontrato, del piccione, a prescindere dallo statuto ontologico che gli si vuole riconoscere, letterario o reale, non ci si libera più, nel sogno come nella realtà, onnipervasiva, presente, magis magisque. Perturbante, appunto, e di nuovo. La vera sfida sarà squarciare il velo dell’immaginazione, andare a scoprire cosa si nasconde sotto quel cappello, perché “colui che è stato non può più non esser stato”. E sarà ancora.

di Angela Durini

 

Letture

Boatto Alberto, Narciso infranto.L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza, Roma-Bari, 1997.
Dodds Eric R., I greci e l’irrazzionale, La Nuova italia, Firenze, 1959.
Ferro Marc, Les oublis de l’histoire, in “Communications”, numero monografico su La mémoire et l’oubli, Seuil, Parigi, 1989;
Landsberg Paul-Luis, Teoria sociologica della conoscenza, Ipermedium libri, Napoli, 2002.
Lévy-Bruhl, L’anima primitiva, Bollati Boringhieri, 1990.
Pecchinenda Gianfranco (a cura di), Emigrazione e memoria, Ipermedium libri, Napoli, 1998.
Pecchinenda Gianfranco, Dell’identità. Analisi sociologiche, Ipermedium libri, Napoli, 1999.
Pecchinenda Gianfranco, Homunculus. Sociologia dell’identità e autonarrazione, Liguori, Napoli, 2008.
Sciolla Loredana (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Rosenberg & Sellier, Torino, 1983.
Semprùn Jorge, La scrittura e la vita, Guanda, Parma, 1986.
Todorov Tzvetan, L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Donzelli editore, Roma, 1997.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares