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Espianti - Prima Parte

Dopo una presentazione generica del libro, in questa prima parte d’intervista andiamo a conoscere Giuseppe Catozzella, il suo pensiero, la sua radice culturale, curiosiamo con lui all’interno del suo scritto, cercando di capire come si possa arrivare a toccare un tema così delicato quanto sconosciuto come il traffico d’organi...

Chi è Giuseppe Catozzella?

Sono di Milano e sono laureato in Filosofia teoretica con Carlo Sini e Stefano Zecchi. Lavoro nell’editoria e nella comunicazione. Faccio il consulente editoriale per Mondadori, il giornalista freelance e l’ufficio stampa di un teatro milanese.

Da dove vieni, culturalmente parlando? Hai tuoi ispiratori? Sei stato folgorato da qualche autore in particolare nel tuo cammino verso la scrittura da professionista?

Prediligo la letteratura non contemporanea, ma i grandi del passato. Di oggi in Italia apprezzo soprattutto Tabucchi, Moresco, De Luca, Saviano, per ragioni ovviamente differenti, ma tutti accomunati dalla stessa onestà. Tra gli stranieri Houellebecq, Wallace, McCarthy, Easton Ellis, McInerney, Le Carrè.
Il libro che su tutti mi ha folgorato, a quattordici anni, e mi ha davvero dato il senso fortissimo di una "vocazione" e quasi illuminazione - cosa strana data la mia precipua razionalità - è "Narciso e Boccadoro" di H. Hesse, che non ho mai più riaperto.

E’ per te la scrittura una professione? O sempre e solo una necessità che urla da dentro?

Vorrei che la scrittura fosse la mia professione, ma non è così. Ci sono troppe maglie negli ingranaggi della macchina editoriale perché a questa intenzione possa corrispondere facilmente la sua realizzazione. Per esempio la distribuzione dei libri. Se i libri fossero di più nelle librerie se ne venderebbero molti di più. Spesso si perdono tutti quei lettori magari non abituali che leggono una bella recensione e vanno in libreria e, non trovando l’oggetto del loro desiderio, non ci tornano più.
Per me la scrittura, fondamentalmente, è scrittura della Verità, o altrimenti non è. E’ questo che mi fa tremare i polsi mentre scrivo. L’essere al cospetto della Verità, come un’apparizione.



Come ti sei affiancato ad una tematica così scottante e pericolosa come quella del traffico d’organi in Italia?

Credo che la letteratura, come tanto di quello che si produce nel nostro paese, non sia esente da superficialità e da un certo sguardo corto che rende difficile guardare al di là del proprio naso, e quindi ripiegarsi oziosamente su se stessi, in generale.
Sono dunque partito dal presupposto che prima di essere scrittore avessi il dovere di essere un cittadino. E un cittadino consapevole non può non accorgersi che ci sono troppe cose che non vanno in Italia. Sono piuttosto recenti le prese di coscienza anche negli editoriali dei più grandi quotidiani sul nichilismo, corruzione diffusa, castismo, mafia infiltrata, sistema dei favori, baronato, come strutture alla base del nostro paese.
Io sono partito da qui. Mi sono messo per mesi alla ricerca di un argomento inedito che fungesse da cardine per parlare del marcio dell’Italia, del perché siamo nichilisti e del perché l’economia è una delle più frenate del mondo. E mi sono imbattuto nel tema del traffico di organi. Dato che sull’argomento praticamente non c’è nulla di scritto - esistono solo un paio di libri che tentano di occuparsene - sono riuscito a entrare in contatto con un magistrato che si sta occupando della cosa nelle prime indagini italiane in atto in una procura sul traffico d’organi. E ho capito che il fenomeno, fatalmente, lega amministratori politici, criminalità organizzata, vertici di istituzioni ospedaliere, interessi economici.

Più in generale, poi, nel mio romanzo la storia si dipana tra Milano, Matera, Sydney e Allahabad in India. In questo percorso nello spazio, il protagonista si imbatte - attraverso una personale discesa agli inferi e una graduale riemersione - nelle radici psicologiche e filosofiche che stanno spingendo gli italiani verso la mancanza totale di senso, cosa che ha reso possibile anche lo smercio di corpi umani in pezzi.

Quindi scrittura, o meglio letteratura, come testimonianza direta di una verità scomoda? Un modo per affrontare temi che fanno paura?

Al fondo ci sta la convinzione che parlare di certe cose possa cambiare la realtà. La letteratura, altrimenti, servirebbe davvero a poco. E’ stata, infatti, da troppo tempo superata in termini di efficacia di rappresentazione da altri mezzi. Quello che le resta - sempre meno, peraltro - è il potere di critica, è il parlare al cuore del lettore, è la possibilità di dire cose che né i giornali, né i film, né la tv in realtà dicono.
Quello cheho fatto è stato non solo parlare di indagini della magistratura sul traffico di organi, ma anche della struttura fondamentalmente "mafiosa" di alcune aziende, della totale mancanza di meritocrazia, della mediocrità delle raccomandazioni che affligge l’Italia e non la rende competitiva - poiché in altri paesi non è certo così, e lo so per esperienza diretta. Del bassissimo senso di legalità, rappresentato su tutti dal nostro premier che si fa beffe proprio della Magna Charta, la Costituzione. E del conseguente declino necessario.
Per come la vedo io, non credo ci sia altro senso per la letteratura, oggi.

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