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Emergency e Lashkar Gah: una storia da non chiudere

Emergency e Lashkar Gah: una storia da non chiudere

Finalmente il popolo italiano ha potuto dare libero sfogo a quella parola strozzata in gola da troppi giorni. Liberi!

La conclusione di un’assurda prigionia durata oltre una settimana è stata certificata nella serata di domenica dal sorriso raggiante di Gino Strada e dalle parole di un serenissimo Marco Garatti. Quest’ultimo, Matteo Dell’Aira e Matteo Pagani (simpaticamente rinominati dal collega "i due Mattei", a richiamare volutamente alla memoria la storia di atroce prigionia subita dalle "due Simone" nel settembre 2004 in Iraq) hanno finalmente trovato la piena libertà tanto attesa e altrettanto dovuta. Finalmente liberi da ogni irrazionale e sconsiderata macchia sul proprio nome.

La realtà dei fatti che si presenta di fronte agli occhi anche del più smaliziato ascoltatore o lettore è univoca: un maldestro e feroce tentativo di infangare il nome, la solidità e l’intero lavoro di un pezzo importante di Italia e di Mondo quale è Emergency ha avuto luogo nei giorni scorsi.

L’opera di diffamazione di Emergency, avviata con l’introduzione nell’ospedale di Lashkar Gah di armi ed esplosivi ad opera di autori al momento sconosciuti, ha ottenuto nuovo vigore con le accuse ufficiose di contiguità al terrorismo lanciate dal National Directorate of Security (il servizio segreto agli ordini di Hamid Karzai) e con i dubbi, le illazioni e le critiche all’operato di Emergency, protagonisti dei discorsi a mezzo stampa dei ministri Frattini e La Russa e degli onorevoli Gasparri (PDL) e Bosi (UDC).

E’ proseguita con i dispacci d’agenzia che imputavano ai tre liberati un inesistente rifiuto all’utilizzo degli aerei di Stato per tornare in patria (immediatamente commentati con acrimonia dal sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto) ed è terminata con l’indiscrezione di un baratto ospedale-prigionieri tra Emergency e Karzai immediatamente smentito dall’intero staff dell’organizzazione umanitaria.

Nessuna scusa formale o informale accompagna la scarcerazione di tre italiani innocenti e di cinque colleghi afgani. Il governo afgano è sovrano, al punto tale da esserlo al di là di ogni regola democratica. Al punto di esercitare l’abuso del potere con la stessa arroganza e con la stessa serenità d’animo con cui lo esercitavano i predecessori talebani.

L’intera vicenda, sistematicamente oscura e a tratti agghiacciante, ad oggi non consente però, a nessuno, di poter scrivere da qualche parte la parola "fine". Uno dei nove afgani "arrestati" dai servizi segreti afgani è ancora in stato di prigionia, nonostante l’assenza, anche per quest’ultimo, di un qualsivoglia capo d’accusa formale. Lo staff di Emergency non è ancora tornato nel proprio ospedale di Lashkar Gah e tuttora la struttura ospedaliera ed i macchinari, pagati con le numerose donazioni di volenterosi cittadini italiani (e non solo), restano indebitamente nelle mani delle forze armate afgane e sotto il diretto controllo del governo di Hamid Karzai.

Il ruolo assunto dalle varie forze in campo nella vicenda, a partire dal governo afgano per arrivare a quello italiano e persino all’Onu, non è ancora del tutto chiaro. Forse non lo è proprio per niente. E ancora meno chiare sono le responsabilità penali dei veri (ignoti?) protagonisti degli eventi accaduti 9 giorni fa. Per non parlare di quelle (almeno politiche ed organizzative) dei servizi segreti afgani e del governo Karzai.

La volontà di mettere la parola fine a questa assurda e sporchissima vicenda per qualcuno è molto forte. La vera sfida per il mondo dell’informazione e per quello della politica consiste ora nella capacità di non cedere alla facile tentazione di archiviare il tutto, di seppellire i tanti omissis di questa storia sotto una risma di fogli imbrattati.

Non è il primo abuso di potere commesso da parte del governo afgano di Hamid Karzai a danno di operatori umanitari di Emergency. E se l’informazione e la politica dovessero collocare questa storia nel gigantesco ripostiglio del dimenticatoio collettivo, possiamo stare certi che non sarà l’ultimo.

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