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E’ difficile fare la rivoluzione

E’ proprio difficile fare la rivoluzione o almeno indurre la classe dirigente a qualche significativo cambiamento quando non si hanno le leve del potere in mano. Perché di questo, paradossalmente, si tratta. Operai e contadini hanno fatto rivolte e rivoluzioni utilizzando il vero potere che è quello di essere ruota imprescindibile di un meccanismo o meglio del meccanismo produttivo. 

Ora che i saperi sono interconnessi ed intercambiabili, ora che si possono appaltare a Bombay o a Budapest anche i call-center e altre (più qualificate) attività di lavoro, cosa rimane per azionare la leva della rivoluzione?

Le lauree che si sprecano, i master, i saperi, le lingue, risultano del tutto improduttivi per imporre un vero cambiamento della società e non sarà il solito, l’ennesimo corteo, numeroso, con concentrazione in questa o quella piazza a preoccupare i potenti di turno. Gli indignati di oggi hanno solo carte da appendere al muro,non hanno nemmeno i forconi dei contadini o governano i pulsanti delle presse della fabbrica. Niente! 

Potenti? No, qui non siamo di fronte ai capitalisti, ai padroni del vapore, della prima o seconda industrializzazione, qui siamo di fronte ad una classe dirigente, in senso lato, non solo quella politica, che vive di rendite sicure che hanno la loro origine nelle casse pubbliche. Non rischiano niente. 

Vive di rendita il parlamentare, nazionale, europeo o regionale, vive di casse pubbliche tutta la più alta burocrazia di ogni apparato, vive di casse pubbliche l’imprenditore che vive di appalti con le amministrazioni pubbliche, il banchiere che ti prende per i fondelli solidarizzando con i protestatari. Tutti uniti a mantenere privilegi e prebende che si sono accresciute in maniera spropositata negli ultimi venti anni. Quelli che dovevano essere gli anni dell’economia di mercato e che si sono rivelati gli anni della furbizia pubblica, di chi ha capito che in Italia (soprattutto) bisogna stare dentro al sistema e per chi resta fuori c’è solo da sopravvivere.

Le manifestazioni di questi giorni descrivono bene lo stato dell’arte. Positivo il prologo del sit-in dinanzi alla Banca d’Italia per sottolineare che ormai è quello, tra gli altri omologhi, il palazzo delle decisioni importanti. Restando lì per ore ed ore, snobbando i palazzi della politica, i dimostranti hanno dato un grande segnale di consapevolezza della posta in gioco e di avere presenti i veri protagonisti dello sfascio planetario. 
E invece non bastava a qualcuno: ci voleva il classico, ritrito, corteo con concentramento in una piazza per permettere magari a tre o quattro di avere il quarto d’ora di celebrità. Così non è stato, per ragioni sulle quali si discute animosamente in questi giorni. 

L’unica soddisfazione per tanti che hanno partecipato o osservato il corteo di sabato rimane lo sputo in faccia a Pannella. Ora, con tutte le riserve che si possono avere nei confronti del pannellismo appare significativo il gesto perché rendeva più “nostrana” la giornata internazionale di protesta riproponendo la solita, ennesima, manfrina parlamentare della scorsa settimana ove le parti opposte si sono date al conteggio dei voti in Parlamento pro o contro il cavaliere.

Ancora una volta, per come sono andate le cose, questo Paese dimostra di non riuscire a stare al passo con altri ove è scoppiata la protesta, rifugiandosi in una piccola, insignificante, storia che tanto rincuora o indigna le tifoserie avverse.

Questo Paese non cambia nemmeno di fronte ad una crisi economica devastante perché chi si indigna, oltre a non avere mezzi significativi per indurre al cambiamento, non trova culture politiche idonee e dunque non sa nemmeno quale strada prendere, perché tutte le forze politiche sono asserragliate nel Palazzo non avendo parole e idee per rappresentare il disagio e la povertà che vanno crescendo. 

In questi venti anni hanno tutti suonato la stessa musica, per direttori d’orchestra che erano altrove. Ovunque, nel mondo, la protesta marca bene questo aspetto, in Italia è vietato dirlo.

Pro memoria:

"Nel dicembre 1997, a 23 anni, Julia "Butterfly" Hill si è arrampicata in cima a una sequoia, battezzata Luna, per protestare contro l'abbattimento di una foresta di alberi millenari nel nord della California da parte della Pacific Lumber, una società nel settore della raccolta del legname.
Ne è discesa solo 2 anni dopo, avendo raggiunto con la Pacific Lumber un accordo di grande valenza simbolica, per la conservazione di Luna e degli alberi circostanti. Durante tutto questo periodo ha vissuto su una piccola e traballante piattaforma a circa sessanta metri di altezza, in balia delle tempeste, degli elicotteri della Pacific Lumber e dei suoi agenti di sicurezza che impedivano il passaggio dei rifornimenti."

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