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Dopo l’orribile Monti un nuovo Tremonti?

Tanti, magari rivoluzionari a parole, sembrano volere un nuovo Tremonti; tutto il contrario di quello di cui il Paese avrebbe bisogno.

In questi anni, quando solo chi voleva essere cieco poteva non vedere la slavina che stava per rovinare sull’Italia, ho dedicato molti dei miei articoli a spiegare le ragioni che imponevano una coalizione di tutte le forze del centro e della sinistra; ragioni che, dopo pochi mesi di governo Monti sono diventate ancor più evidenti.

Dopo le reazioni furibonde di ampi settori della nostra società al tentativo, che si sta facendo, di introdurre riforme minime, nessuno può onestamente pensare che un governo del 51% o giù di lì possa fare domani delle scelte che, rispetto a quelle timidissime operate dal Monti, dovrebbero essere ancor più radicali.

In un mio precedente contributo, ho ricordato il compromesso storico. Non me ne pento, come resto convinto dell’opportunità di un partito che raccolga l’eredità delmontismo” (detto fuori dai denti, di una nuova DC adatta ai tempi e alla nostra società laica e già multiculturale). Non solo; penso che la nostra situazione sia assai più grave di quella in cui eravamo negli anni 70 e sia, piuttosto, simile a quella in cui ci trovammo il 25 aprile 1945: come allora dovremmo ricostruire il Paese e per farlo, dopo un trentennio di stasi e senza piano Marshall, avremmo bisogno di concordia, tra la maggior parte delle forze politiche, per lo spazio di almeno una legislatura.

Guardando alle cause del nostro declino, dalla rapacità della politica all’invadenza di una burocrazia fine a se stessa, dall’incapacità d’innovare alla stitichezza del credito, dall’esistenza di infinite rendite di posizione all’endemico nepotismo, non si può evitar di pensare che per far ripartire il paese servano ricette nuove, che non possono trovare tutti i loro medicinali esclusivamente in una delle due tradizionali farmacopee della destra e della sinistra. Considerando la diffusione dell’evasione fiscale, del lavoro nero e del sottolavoro come alla scarsissima efficienza del comparto pubblico (sanità ed istruzione, escluse) e l’esistenza di milioni di “finti” pensionati, è ben difficile, poi, assolvere da ogni colpa qualche settore della nostra società. Con l’eccezione dei lavoratori dipendenti del settore privato (le “rape” del nostro sistema) tutte le altre categorie sono state, in un modo o nell’altro, corresponsabili del degrado del paese e andrebbero messe di fronte alle proprie responsabilità.

Detto questo, diventa irrilevante o quasi l’area di provenienza del “De Gasperi” di cui avremmo bisogno: dovrà, per forza di cose, scontentare quasi tutti; prendere, senza pregiudiziali ideologiche, misure che un giorno potrebbero apparire di sinistra (continuo a ritenere sia necessaria una patrimoniale strutturale) e quello dopo di destra.

“Non firmo cambiali in bianco” strillano uno dopo l’altro i nostri politicanti.

Al punto in cui siamo è esattamente quel che dovremmo fare: avendo chiaro quel che vorremmo il nostro paese diventasse, individuare qualcuno cui affidare l’incarico di provvedere alle riforme necessarie, farne il candidato alla Presidenza del Consiglio della grande coalizione a venire, e, forte di una salda maggioranza politica, lasciarlo lavorare. Questo non significa instaurare un dittatore, ma sospendere il giudizio sulle singole norme per valutarne solo l’impatto complessivo; non ingessare tutto, come sta accadendo proprio in questi giorni, nella ragnatela dei veti incrociati.

Si tratterebbe, per una volta nella nostra storia, di dimostrare un po’ di quella fiducia che in questo momento, senza che vi sia la minima ragione reale per cui debba essere così, non abbiamo né nel nostro paese né in noi stessi.

L’Italia, che deve recuperare decenni di mancata crescita, ha infatti quasi tutto per esplodere in un nuovo boom economico; i suoi prodotti sono apprezzati in tutto il mondo, il suo turismo è una miniera d’oro sfruttata solo superficialmente, lo sviluppo della rete a livello simile a quello del resto d’Europa garantirebbe, da solo, qualche punto percentuale di PIL nel corso di pochi anni. Non ci vorrebbe molto per farla tornare a crescere, non appena la situazione internazionale dovesse migliorare.

Nessuno o quasi degli italiani, però, sembra crederci; in loro vi è, anzi, l’intima convinzione che il futuro sarà, nella migliore delle ipotesi, una prosecuzione lineare del presente declino. Tutti vedono verso quale destino da secondo o terzo mondo è indirizzato il loro paese, ma, convinti che in fondo non ci si possa far nulla, non accettano il minimo cambiamento, limitandosi a difendere con le unghie e con i denti il proprio orticello; il proprio angolo ancora asciutto della scialuppa.

Non so chi potrà essere il nuovo Monti (forse il vecchio; forse un altro che non ho mai sentito nominare), ma, prima d’ogni altra cosa, dovrà saper vincere questo muro di sfiducia e restituire agli italiani l’idea di futuro.

Per gestire il presente, per continuare ad affondare, convinti che non si possono fare panini con la Divina Commedia (panini? Ci si potrebbe guadagnare di che pasteggiare a caviale e champagne, anzi a culatello e Sangiovese, con la nostra cultura), basterebbe un nuovo Tremonti.

Purtroppo, magari di un altro colore rispetto all’originale, è quello che tanti, magari rivoluzionari a parole, sembrano volere.

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