• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tempo Libero > Musica e Spettacoli > Dignità auratiche dell’unicità – ricchezze estetiche della riproducibilità

Dignità auratiche dell’unicità – ricchezze estetiche della riproducibilità

Dignità autonome di prostituzione

uno spettacolo di Luciano Melchionna
dal format di Betta Cianchini e Luciano Melchionna

L’aria da bordello la si percepisce immediatamente. Le soffuse luci rosse fanno da cornice ad un’atmosfera quasi surreale accompagnata da geniali musiche di sottofondo sconosciute alla maggior parte dei presenti in sala (come per esempio le suggestive ballate della cantautrice Momo). Appena entrati a teatro si ha la sensazione di trovarsi in un bordello vero e proprio che nulla ha da invidiare ai famosi locali di Pigalle, in cui fanno la propria comparsa donne e uomini dall’abbigliamento che poco lascia all’immaginazione.

Il teatro diventa così una casa di appuntamenti in cui gli attori, prostitute alla mercé del cliente/spettatore, si fanno scegliere regalando “pillole” d’arte al migliore offerente.
 
Gli attori/prostitute riconquistano in tal modo una parte di quella dignità artistica che alcuni pretendono troppo sottomessa alle leggi di mercato. Lo spettacolo di cui scriviamo è Dignità autonome di prostituzione, diretto da Luciano Melchionna in collaborazione con Betta Cianchini, in scena in questi giorni al teatro Bellini di Napoli. Uno spettacolo che si prende gioco della crisi in cui è precipitato il teatro, mettendo in scena una prostituzione dell’arte puramente metaforica; nella “Casa chiusa dell’arte” si gode, ma si gode d’arte appunto!
 
Melchionna, drammaturgo eclettico e sorprendente mette in scena il suo spettacolo attraverso un’interazione con un pubblico affascinato e divertito che ricorda sì l’interattività dell’era contemporanea ma in una relazione paritaria, fisica e reciproca.
 
E così lo spettacolo si svolge in forma volutamente interlocutoria proprio per valorizzare la reciprocità di questa nuova rappresentazione teatrale.
All’ingresso vengono distribuiti “dollarini”, ovvero gettoni con cui è possibile pagare, ovviamente dopo una contrattazione con una maîtresse, le varie prostitute che in cambio offrono le loro prestazioni culturali, che il regista ama chiamare “ pillole del piacere”: monologhi del teatro classico (rivisitati) e contemporaneo.
 
Uno spettacolo che vuole rifuggire dalla mercificazione dell’arte e che nel farlo rimanda al parallelismo che Baudelaire, lucidamente consapevole dei processi di industrializzazione dei prodotti estetici, riscontrava tra l’artista e la prostituta (l’artista vende l’arte, la prostituta l’amore).
 
Con l’affermazione della società di massa, si assiste infatti al radicalizzarsi dell’insanabile contrasto tra l’io del poeta e la realtà esterna, che riflette peraltro il conflitto fra individuo e società, con la conseguenza che la stessa utilità dell’intellettuale viene messa in dubbio.
 
Da questo sentimento di sconforto nasce, secondo Charles Beaudelaire, una sorta di identificazione del poeta con figure emarginate e “reiette” dalla società, come appunto le prostitute.
 
Il suo poète maudit designa un intellettuale che si sente incompreso e per questo rigetta i valori della società conducendo una vita pericolosa, irregolare ed autodistruttiva.
 
Questo fenomeno, conseguenza della trasformazione della società tradizionale in società capitalistica, genera una ribellione profonda nell’artista, costretto adesso più che mai al precariato ed all’abbandono dei sogni.
Questa “ prostituzione” dell’arte trova il suo equivalente nell’aumento di studenti e giovani che “ vendono” il proprio corpo per pagarsi gli studi o semplicemente per sopravvivere.
 
Nel 2006 un'inchiesta di Studenti Magazine aveva rivelato che il 21% delle studentesse usava il proprio corpo per pagarsi gli studi.
 
Ma quello che più fa riflettere è che oggi a distanza di anni non c'è solo chi vende il proprio corpo per pagarsi una formazione di qualità: una volta ottenuta la laurea, piuttosto che entrare nel sistema degli stage infiniti, della disoccupazione, o del lavoro precario spesso sottopagato c'è anche chi sceglie la strada della prostituzione.
 
Tutto questo è il risultato di una generazione che si vede costretta al compromesso pur di veder realizzare i propri sogni, in un’era che vede protagonista lo sfruttamento lavorativo oltre che artistico degli individui.
Ma quando, storicamente, si è iniziato a parlare dell’opera d’arte come di una merce?
 
Sicuramente con l’avvento dell’era industriale, quando ogni cosa, arte compresa, è entrata nel ciclo della produzione in serie.
 
Si è molto dibattuto a questo proposito dell’unicità dell’opera d’arte.
A questo proposito è necessario ricordare la centralità in questo dibattito del saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1966), scritto nel 1936, in cui l’autore afferma che nella riproduzione fotografica di un’opera d’arte viene a mancare un elemento fondamentale: il suo hic et nunc, ovvero la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova.
 
È proprio nell’unicità della sua collocazione spazio-temporale che risiede la sua capacità di assumere il ruolo di testimonianza storica. La trasmissione di un’eredità culturale poggia infatti sul permanere nel tempo dell’unicità e dell’autorità delle opere d’arte nonché sulla loro celebrazione e conservazione in luoghi appositamente predisposti.
 
Benjamin riassume i valori di autenticità, unicità ed autorità nella nozione di aura.
 
Il venir meno di quest’aura è determinato appunto dall’affermazione della produzione in serie e della sua applicazione anche alla produzione delle opere d’arte, che diventano così riproducibili all’infinito. Ed è emblematico il passo di un poemetto intitolato Perdita d’aureola pubblicato nel 1857 da Charles Baudelaire nella raccolta I fiori del male (2006) che recita:
 
Poco fa nell’attraversare il Boulevard, in gran fretta, mentre saltellavo nel fango tra quel caos dove la morte giunge al galoppo da tutte le parti tutt’in una volta, la mia aureola è scivolata, a causa d’un brusco movimento, giù dal capo nel fango del macadam.

Il poeta, con l’immagine dell’aureola caduta nel fango, perde la sua dimensione lirica e sacrale: per Benjamin, Baudelaire è il primo ad intuire il declino della figura del poeta vate, esprimendo allegoricamente nella sua lirica la spinta, della quale era testimone, verso la cosiddetta modernità.
 
Una volta persa la dimensione sacrale dell’aura, la quale frapponeva distanza tra l’opera d’arte e colui che ne godeva, essa può essere per la prima volta posseduta e riprodotta. Ecco dove il fenomeno della perdita dell’unicità dell’opera d’arte affonda le sue radici, così che nella società industrializzata anche l’arte diventa un prodotto di consumo allargato, disponibile per un pubblico molto diverso da quello elitario delle epoche precedenti.
 
Il lavoro di Luciano Melchionna ripropone insomma uno dei temi centrali del dibattito sociologico sulla dialettica fra produzione “autoriale” e “di massa” degli oggetti estetici – dialettica forse risolta in partenza con la consueta ironia da Woody Allen in un raccontino ospitato in Citarsi addosso (1996), forse la vera fonte di ispirazione di Melchionna.
 
Modialità diverse, socialmente e storicamente determinate di dare spazio all’immaginazione, alla capacità di ritrovare nella realtà il sogno, il Mito, tutte fatte per emozionarci ancora, e per salvarci da un inevitabile insterilimento e invecchiamento culturale.
 
Dignità autonome di prostituzione è quindi uno spettacolo realizzato con l’intento di ridare dignità al lavoro dell’attore e al contempo riavvicinare il pubblico al teatro, lanciando un allarme contro l’orrore che si nasconde dietro alla mortificazione quotidiana della dignità di chi cerca lavoro, ed è costretto spesso ad accettare impieghi inadeguati, frustranti, incerti.
 
Letture
Allen Woody, Citarsi addosso, Bompiani, Milano, 1996.
Baudelaire Charles, Perdita d'aureola, in I fiori del male, Einaudi, Torino, 2006.
Benjamin Walter, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
 

di Sonia Catani

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares