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Diavolo di una manta!

Mi è capitato di vederle una volta, stando sott’acqua (qualcosa di simile a questo). E davvero l’emozione è stata fortissima. In effetti la manta gigante (Manta birostris), grande razza filtratrice, detiene almeno due primati: il primo (a parer mio) è la sua incomparabile bellezza e dell'eleganza, il secondo (a detta degli esperti) è quello di essere una delle specie di grandi dimensioni meno conosciute dall’uomo. Sui suoi spostamenti e preferenze ambientali infatti se ne sa davvero poco o nulla.

Ad illuminare questo "buio di conoscenze" è apparso recentemente su PLosOne una ricerca "pioneristica" che rivela i movimenti di sei individui - quattro femmine, un maschio e una giovanile – marcati con trasmittenti satellitari in prossimità della penisola dello Yucatan (Messico). Il team internazionale di ricercatori ha monitorato gli spostamenti degli enormi pesci cartilaginei (come gli squali per intenderci) per un massimo di due mesi: essi hanno trascorso la maggior parte del tempo all'interno delle acque territoriali del Messico - entro 200 miglia della costa -, allontanandosi al massimo 100 chilometri dal punto iniziale di campionamento.

Le aree attraversate si sono rivelate ricche di zooplancton e uova di pesce, che insieme costituiscono la dieta delle mante. Si tratta infatti di animali filtratori e quindi - a fronte dell'appellativo "Diavoli di mare" con cui sono anche chiamati - sono totalmente innocui per l’uomo. Anzi semmai è vero il contrario. È ben noto infatti che la specie è fortemente a rischio estinzione, a causa di una pesca insostenibile e del commercio delle branchie, utilizzate (per presunte virtù benefiche) nella medicina tradizionale cinese.

Purtroppo, questo lavoro di Rachel T. Graham della Wildlife Conservation Society e collaboratori ha identificato anche una netta sovrapposizione tra le aree di aggregazione delle mante e le tratte di navigazione dei grandi cargo in aree caraibiche, suggerendo possibili (e mortali) impatti, ad ora ancora mai monitorati. Di contro solo l’11,5% dei rilevamenti via satellite si trovava all’interno di aree marine protette.

In realtà le zone di foraggiamento si trovano troppo a largo e sono troppo disperse per poter istituire opportune riserve, concludono i ricercatori, ma l'alta fedeltà alle aree costiere offre comunque una possibilità di intervenire con misure di protezione. Magari a fornte di uteriori studi simili per aumentare i dati a disposizione.

Marta Picciulin

Questo articolo è stato pubblicato qui

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