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Di iPad2, dello Yuan e di due lezioncine di Adam Smith

Stando ai dati forniti dal Boureau of Labour Statistics, un lavoratore americano impegnato nella produzione di beni costava 33,35 dollari l’ora nel dicembre 2011.

Dividendo il costo di assemblaggio di iPad 2, che si aggira attorno ai 10 dollari, per le nove ore necessarie per completarlo, la società iSuppli, specializzata in questo tipo di ricerche, ha calcolato che un lavoratore cinese costa a Apple 1,11 dollari l’ora.

Non serve altro per capire perché l’azienda fondata da Steve “santo subito” Jobs, come tante altre dell’occidente, sia andata a produrre dalle parti di Pechino o Shanghai.

Non serve, soprattutto, raccontare aneddoti sulla straordinaria produttività dei cinesi o sul loro attaccamento al posto di lavoro; se davvero non si riesce a fare a meno delle generalizzazioni, basta parlare con qualche imprenditore italiano che abbia aperto filiali in Cina per sentirne dire altre, di segno opposto, “per fare fanno, ma di come riesce il lavoro non glie ne frega niente” proprio sulla manodopera di quel paese “costeranno poco, ma ce ne vuole dieci per fare uno di quelli che ho nel varesotto”, come mi è accaduto conversando, un paio d’anni fa, con un dirigente di un’azienda tessile.

Turni di lavoro di dodici ore, mantenuti per settimane, come pare arrivino a fare gli operai cinesi, o di giornate lavorative di sedici ore, magari intervallate da un turno di riposo, per soddisfare un ordine improvviso, sono esperienze comuni (o lo sono state quando la produzione “tirava”) anche per i lavoratori di tante delle nostre piccole e medie imprese; rappresentano la vita normale di quegli italiani, figli di dei assolutamente minori, che pagano i conti della nostra comunità nazionale e di cui è facile dimenticarsi se non si ha mai a che fare con il mondo della produzione.

Non è quindi ipotizzando maggiori sacrifici dei nostri lavoratori, che si può sperare di competere con la Cina in campo manifatturiero, specie se si continuerà a lasciare a questo paese la possibilità di farlo seguendo regole tutte proprie.

E’ demenziale, in particolare, che la Cina possa partecipare liberamente al commercio mondiale, mantenendo una valuta non convertibile, il cui cambio con le altre viene deciso d’ufficio dalle autorità di Pechino.

Per quanto possano essere frugali i lavoratori cinesi, le loro paghe reali non sono infime come appare dai dati che ho fornito all’inizio di questo contributo; quel dollaro e undici centesimi, in Cina, vale molto di più che a San Francisco o a Milwaukee e molto di più di quanto valgano 85 centesimi di Euro a Milano o a Monaco.

Dal 2005 ad oggi la moneta cinese, lasciata libera di fluttuare solo dello 0,5%, è stata rivalutata rispetto al dollaro di un mero 20%. Se è pur vero che l’inflazione cinese è più alta di quella americana, e questo si è tradotto in una rivalutazione reale di circa il 50%, resta vero che lo Yuan, secondo molti analisti, sia ancora molto sottovalutato e per alcuni dovrebbe arrivare a valere almeno il doppio di quel che vale ora.

Se la quotazione dello Yuan fosse fissata dallo stesso mercato che regola quella delle altre valute, insomma, la Cina avrebbe qualche difficoltà in più ad esportare e all’occidente sarebbe più facile vendervi le proprie merci.

Non accadrà tanto in fretta, anche se se ne parla da quasi un decennio; quando lo farà, però, dobbiamo aspettarci un completo sconvolgimento non solo delle bilance commerciali, ma dei rapporti di forza mondiali.

Ci possono essere pochi dubbi che uno Yuan convertibile, con alle spalle quella che è già la prima potenza industriale del pianeta, si affiancherebbe immediatamente al dollaro come moneta del commercio internazionale. Un fatto che, da solo, basterebbe a mandare in frantumi il rapporto di simbiosi che si è creato tra Stati Uniti e Cina.

Oggi i cinesi producono e gli americani importano i loro prodotti pagando con i dollari che stampano a propria volontà; una situazione che è stata funzionale allo sviluppo cinese, oltre a consentire lauti utili a tanti emuli di Steve Jobs, e che continua a reggersi perché il dollaro, più appoggiandosi alla forze armate che a quelle economiche degli Stati Uniti, rimane la moneta unica degli scambi globali, ma che non potrà durare indefinitamente.

Ci siamo dimenticati, e in particolare lo hanno fatto gli americani, seguendo le falene del neoliberismo, cullando l’illusione di un’economia solo cartacea, di un paio di lezioni di Adam Smith.

“Non è con l’oro o con l’argento, ma con il lavoro, che si sono acquistate all’origine le ricchezze di questa terra” diceva l’economista, che avvertiva anche come “non è aumentando il capitale di un paese, ma rendendo attiva e produttiva la maggior parte possibile di quel capitale, che le più giudiziose operazioni finanziarie possono far sviluppare l’industria di quel paese”.

Tutto il contrario di quello che, guidati dai santoni della finanza fine a se stessa, nonostante il sistema sia prossimo al suo punto di rottura, continuiamo a fare.

Commenti all'articolo

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.143) 26 gennaio 2012 21:17
    Damiano Mazzotti

    Ottima esposizione, ma secondo lei i dazi in questo caso cinese e per molti prodotti sarebbero utili?

    A mio parere si, perchè la Cina sta giocando sul mercato mondiale con le carte truccate e lo fa perchè fa comodo anche ai multimilionari europei e americani. E i lavoratori occidentali e gli Stati non facendo niente continueranno a prenderlo in quel posto.

    E si può e si deve detassare il lavoro... Ma vallo a spiegare a dei vecchi burocrati bacucchi

    Come può un imprenditore onesto competere con cinesi, indiani e vietnamiti... Certe produzioni occidentali sono destinate a sparire insieme all’indotto... per cui ci saranno intere cittadini europee che dovranno reinventarsi dei business... e i loro giovani dovranno andare a lavorare in paesi come il Brasile e l’India... è la ruota della storia e della sfortuna...

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