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Decreto Dignità | Paga e taci, somaro imprenditore

 

Una caratteristica della nostra classe politica è quella di azzuffarsi come i capponi di Renzo su questioni ideologicamente cariche e spesso altrettanto dannose per l’economia, mentre viene ignorata l’essenza del problema, che tende quindi a persistere ed aggravarsi. Nel solco di questa fulgida tradizione appare anche l’iter parlamentare del cosiddetto decreto dignità.

Il punto del contendere è ora divenuto un emendamento del Partito democratico che vorrebbe eliminare la maggiorazione degli indennizzi per licenziamento illegittimo. Lesto a cogliere il punto, essendo ormai divenuto un piccolo maestro di demagogia e populismo da aree depresse o aspiranti tali è stato il vicepremier Luigi Di Maio, che ha subito rimproverato il Pd di essere dalla parte dei “padroni”, usando una terminologia da filanda ottocentesca che ben si attaglia allo stato miserevole del dibattito pubblico di questo paese, oltre che a chi ha assai scarsa dimestichezza col mondo del lavoro.

Che il tribuno della plebe Di Maio abbia buon gioco con questa retorica piagnona e muffita non sorprende affatto; il Pd non riesce ad inseguirlo su quel terreno, per quanto si sforzi. Ed ecco quindi che tenta il rilancio, per spiegare il quale serve una precisazione. Il decreto dignità prevede un aumento del risarcimento monetario per licenziamento illegittimo, ma non tocca la parte del Jobs Act che agisce sulla conciliazione stragiudiziale, che ha la funzione di ridurre il contenzioso.

L’articolo 6 del D.lgs 23/2015 prevede infatti che, entro 60 giorni dalla data del licenziamento,

«Il datore di lavoro può offrire al lavoratore (…) un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità»

Il decreto dignità non tocca questa norma anti-contenzioso bensì aumenta l’onerosità potenziale della soccombenza aziendale in sede giudiziaria. Quindi la filosofia è completamente differente, perché in quest’ultimo caso si alza il premio potenziale per il lavoratore che promuove azione legale contro il datore di lavoro. Niente di più desiderabile, per gli amanti del conflitto aziendale e per gli avvocati lavoristi. Una misura che, non a caso, fa salivare copiosamente la sinistra-sinistra.

Che offre il Pd, invece? Pur di evitare il contenzioso, che è un costo per le aziende e che disincentiva il ricorso al tempo indeterminato, con buona pace di qualche keynesiano che non sa far di conto, offre invece l’aumento dell’importo in caso di risoluzione stragiudiziale, da un minimo di tre ad un massimo di 27 mensilità. Ora, con una complessa inferenza, scopriamo che il Pd vorrebbe ridurre l’onerosità del contenzioso aumentando quella della conciliazione stragiudiziale. Comunque la si giri, l’azienda paga. Eppure, Di Maio ha avuto buon gioco a presentare la contromossa del Pd come fosse “un favore ai padroni”, il che la dice lunga sulla metastatizzazione del populismo in un paese che fa dell’ignoranza e dell’ideologia i vessilli del proprio fallimento.

Pare quindi che, unica soluzione, per maggioranza ed opposizione parlamentare di questo paese, sia bastonare le aziende. A conferma dell’approccio da socialismo surreale e fallito che ci sta affossando. Aumentiamo il costo del tempo determinato ma anchequello dell’indeterminato, in un modo o nell’altro, per vedere di nascosto l’effetto che fa.

Continua a non vedersi sforzo analitico per determinare in modo oggettivo la maggiore onerosità complessiva del tempo indeterminato rispetto al determinato, che dovrebbe invece essere la premessa necessaria per intervenire a rimuovere la soverchiante preminenza del secondo sul primo. Nel frattempo, continuano a non esserci soldi per tagliare il cuneo fiscale sul tempo indeterminato e dobbiamo accontentarci di misure tampone come la decontribuzione selettiva per gli under 35 (o 30), che sta fallendo ma che qualcuno, come la ministra del Mezzogiorno e dei climatizzatori, Barbara Lezzi, vorrebbe innalzare sino ai 50 anni di età. Che tenerezza.

Nel frattempo, le imprese paghino e tacciano. I risultati non tarderanno. Se volete qualche numero di comparazione tra la Repubblica Democratica Popolare italiana ed altri paesi europei, quelli che complottano contro di noi, lo trovate oggi sul Sole, in un pezzo di Francesca Barbieri. In esso, scopriamo che l’inasprimento degli indennizzi per licenziamento illegittimo è mirato a due categorie opposte di lavoratori, sul piano dell’anzianità di servizio:

«Resta in vita la regola centrale del decreto legislativo 23/2015 – il risarcimento è pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio – e, quindi, il nuovo sistema avrà un impatto immediato per i lavoratori con anzianità inferiore a 2 anni. Queste persone, con la vecchia disciplina avrebbero avuto un risarcimento non inferiore a 4 mensilità nonostante l’anzianità ridotta, mentre da oggi in poi avranno diritto (in caso di esito positivo della lite) ad almeno 6 mesi»

E ancora:

«Molto più diluito nel tempo sarà invece l’impatto dell’innalzamento, da 24 a 36 mesi, del tetto massimo: il beneficio riguarderà, infatti, lavoratori con un’anzianità superiore ai 12 anni a partire dal 2015, requisito che, salvo casi specifici, non potrà presentarsi prima del 2027»

Quindi, come si vede, il decreto dignità punta di fatto a porre sulle spalle delle aziende e non della fiscalità generale un intervento di welfare a favore dei lavoratori più giovani e di quelli più anziani, in senso anagrafico e/o aziendale. Come si possa immaginare di agevolare lo sviluppo dell’occupazione a tempo indeterminato, con questo approccio e questa visione del mondo, resta un mistero assai poco buffo.

 

In termini di costo dei licenziamenti illegittimi, quindi:

«Con le nuove soglie si consolida così la posizione dell’Italia sullo scacchiere europeo, nel club dei Paesi più “generosi” per quanto riguarda gli indennizzi in caso di licenziamento illegittimo. Quello minimo (6 mesi) supera di gran lunga la mezza mensilità della Germania, le tre settimane del Belgio e i 33 giorni della Spagna, mentre solo la Svezia con 16 mensilità è più generosa. Il “risarcimento” massimo, invece non ha rivali in Europa: la Germania si ferma a 18, Spagna e Irlanda a 24, la Francia a 20, secondo l’elaborazione dello Studio legale Toffoletto, De Luca, Tamajo e soci»

Con queste premesse, da un lato si comprende perché il tempo indeterminato da noi è agonizzante, dall’altro risulta difficile prevedere un futuro radioso per l’occupazione regolare ed il contrasto alla precarietà. Quindi, l’iniziativa di “riduzione del danno” del Pd non riduce alcunché, oltre a risultare perdente nell’arena dei tribuni della plebe in cui ci misuriamo oggi. Il welfare non si disegna così, in caso non si fosse capito.

Ma se il paese vuole il socialismo surreale, meglio darglielo: sarà -forse- l’occasione per fare un po’ di pedagogia sul concetto di trade-off e sulla realtà. Chi, nei prossimi mesi, non vedrà rinnovato il contratto a tempo determinato né troverà alcunché a tempo indeterminato, potrà andare a citofonare al signor Luigi Di Maio ed ai suoi compari.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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