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D’Azeglio e gli italiani

Il 13-2-1861, la caduta della cittadella di Gaeta, nella quale Francesco II si era asserragliato con i suoi fedelissimi, decretava la fine del Regno Borbonico e la liberazione di gran parte dell'Italia.

Dopo quasi un mese, si riunì a Torino il primo Parlamento Italiano, che, nella seduta del 17-3-1861, proclamò il Regno d'Italia. Il sacrificio di tanti martiri, unitamente con le attese e le speranze degli italiani, conobbero la loro naturale conclusione. L'Italia era fatta, sebbene mancassero ancora Roma e Venezia all'unificazione dell'intero territorio nazionale.

Ad aggravare ulteriormente le innumerevoli difficoltà del momento, sopraggiunse la morte di Cavour. Se, grazie soprattutto a lui, con una accorta politica e con una generosa audacia, era stato possibile unificare la penisola nel territorio, a quel punto occorreva unificarla nelle strutture e, ancor più, nello spirito e nelle leggi. La mancanza di una spiccata personalità capace di raccogliere i consensi e di dirimere i dissidi, si fece sentire, tanto che i primi passi del nuovo Stato furono alquanto incerti.

“L'Italia è fatta, facciamo gli italiani”, avrebbe allora esclamato Massimo D'Azeglio. E infatti, il solo legame esistente fra le diverse regioni italiane era, per il momento, la lingua: una lingua che però non sempre veniva compresa da tutti. Capitava pertanto che regioni tenute per secoli divise fra loro, non riuscivano di colpo a comprendersi e ad affratellarsi: così i meridionali con i settentrionalii piemontesi con i siciliani, i toscani con i napoletani, stentavano a riconoscersi figli di una stessa Patria, quando per secoli li avevano separati, e spesso fatti sentire addirittura nemici, barriere doganali, confini e ambiziosi governanti. A penalizzare ulteriormente quella già precaria situazione sociale, contribuiva in maniera determinante la piaga dell'analfabetismo, che dimostrò paurose dimensioni: nel 1861, un censimento rilevò l'esistenza nella popolazione del 75% di analfabeti; addirittura, in alcune aree del mezzogiorno, essi sfioravano punte del 90%! In quella drammatica situazione sociale versava l'Italia all'indomani dell'unità: perciò occorrevano straordinarie energie per poter superare quel gravissimo stallo.

Considerando quello spaccato sociale alla luce dell'odierna situazione italiana, sembra davvero di stare di fronte a un preoccupante stallo cronologico. Sembra che il tempo si sia fermato ad allora. Anche adesso abbiamo infatti il novello Francesco II asserragliato nel cuore del potere con i suoi guitti e scherani; anche oggi manca una spiccata personalità capace di coagulare attorno a sé le reali sorti di un popolo; anche oggi, proprio come allora, bisogna ancora “fare gli italiani”. Con la differenza che, mentre all'epoca almeno la lingua fungeva da collante per la gente, adesso manca pure quella, dal momento che, con la moda dell'anarchica integrazione terminologica straniera, si è giunti al punto di corrompere anche il principale strumento preposto alla reciproca interazione.

Per il perdurare di quelle medesime circostanze, finora non è stato possibile realizzare l'agognata unità degli italiani: infatti, la parola Unità deriva dal latino “unitatem”, astratto di “unus”=uno. L'Unità esprime pertanto la qualità di uno, come principio numerico, ed è perciò opposta alla Pluralità. Essa sintetizza la relazione di tutte le componenti di un sistema, talché ne derivi un tutto unico, semplice e solo. Invece, il Federalismo deriva dal latino “foederàlem”, che si richiama a sua volta a “foedus”, il cui genitivo è “foederis”, e, più anticamente, a “Fòidos” e anche a “Fidus”, che vuol dire unione e ancor meglio alleanza, che però gli etimologisti pongono giustamente accanto a “Fid-ere”, cioè all'aver fiducia, che è poi il presupposto di ciascuna alleanza. Tuttavia, questo termine deriva, a sua volta, dal latino “alligare”, quindi al legare insieme con patti persone o Stati. Questo corrisponde all'italiano “lega”, sebbene questo termine abbia un senso più ristretto e perciò ben più lungi dall'Unità, oltre che meno nobile linguisticamente.

Venendo meno l'unità linguistica in particolare, vengono meno tutti gli altri presupposti della unità di più genti. L'idioma, infatti, che veramente esprime la proprietà della lingua, trae dal greco “ìdios”, che sta appunto a significare proprio, particolare. Quindi, l'idioma traduce il linguaggio proprio, particolare di un popolo, che lo distingue dagli altri. Non a caso, il termine individuo, perché di tanti individui si compone un popolo, deriva da 'in', che sta per 'non' e 'dividuus', che vuol dire 'divisibile, separabile'. Ne consegue che per individuo debba intendersi ciò le cui parti non possano dividersi senza che si perda la propria effigie, il proprio carattere e quindi tutto ciò che abbia una personalità e una esistenza tutta sua speciale. Non è così difficile cogliere il particolare legame ricorrente tra una coorte di individui e l'idioma che ne consenta la reciproca interazione non soltanto verbale.

Ebbene, tutto questo manca, ora come allora, agli italiani: perciò essi non hanno ancora acquisita la dignità di popolo e sono pertanto indotti a smarrirsi dietro le insensatezze leghiste, le quali poi, in realtà, traducono qualcosa di ben più grave: la secessione. Questo consegue alla saccenza di molti degli odierni italiani, e quindi a un difetto assente negli italiani di allora, i quali, se per un verso appaiono alfabetizzati per la sola conoscenza delle vocali e delle consonanti, oltre che per la capacità di comporre qualche termine, dall'altro, ignorando l'etimologia e la sintassi, unitamente con l'ortografia e la sintassi, generano confusione tra unità e federalismo, contribuendo così ad allargare quel pestifero bubbone sociale che si cela dietro le allettanti proposte federaliste avanzate da una accozzaglia di sempre più corrotti politicanti, rincorrendo i quali non si tarderà a tornare alla situazione sociale antecedente il 1861.

Questo, tanto per non smentire i famosi corsi e ricorsi storici. Perché gli italiani, quelli odierni, esistono da sempre: esistevano presso i Romani, nei confronti dei quali il ricchissimo re della Numidia, Giugurta, abituato a comprare a Roma qualsiasi favore, ripeteva “Omnia Romae venalia sunt”, dato che tutti i funzionari dello Stato, secondo lui, si potevano corrompere: “era solo questione di prezzo”; esistevano al tempo di Dante, che così si esprimeva al riguardo: “Ahi, serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello”; esistevano nella famosa intervista del diavolo a Francesco Guicciardini, quando gli domandava: ”Maestro, che differenza c'è fra la prima e la seconda Repubblica?”. Guicciardini rispose sorridendo: ”La prima è acqua passata. La seconda è acqua agitata e, non di rado, acqua gasata”; esistevano al tempo del Manzoni, che li appellava come “D'un volgo disperso che nome non ha”; ed esistono oggi, quando un grande giornalista come Indro Montanelli, li ha così definiti: “A me l'Italia attuale non piace affatto. Non ha una coscienza morale. Non ha una coscienza civile. E' un Paese di mafie”.

Non si tratta forse sempre dei soliti italiani? Che non bisogna quindi “fare”, signor D'Azeglio. Semplicemente perché essi esistono. Da sempre. E la storia sta a dimostrarlo! Piuttosto, bisognerebbe cambiarli. Ma questo non è facile!

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