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Crotone e l’archeologia: amore ed odio tra presente e passato

Chi scrive, prima ancora di aderire all’Albo dei Giornalisti della Calabria, si occupò diffusamente e in grande, beata solitudine, del tormentato rapporto tra Crotone e il suo millenario passato, ovvero tra la città moderna e quella fondata dagli Achei intorno al 710 a.C.

Ciò equivale a dire che sono trascorsi circa trenta anni dai miei primi interventi in materia, prevalentemente sulle colonne de “Il Crotonese”, quando quel giornale, diretto dal compianto Domenico Napolitano, era punto di riferimento indiscusso per la città e la sua provincia, all’epoca ancora in nuce. La Soprintendenza archeologica della Calabria aveva a Crotone un presidio vitale e strategico quale era l’Ufficio Scavi, poi barattato con un paio di assunzioni di funzionari e ceduto a Roccelletta di Borgia. Elena Lattanzi era la soprintendente regionale e Roberto Spadea il direttore di tutto quanto avesse a che fare con l’archeologia, museo statale e Ufficio scavi compreso.

Negli anni ottanta Crotone era interessata da una nuova ondata di speculazioni edilizie, nonché dalla capillare diffusione della rete metanifera per portare il gas in tutte le case. Insomma, si scavava ovunque e ovunque ciò avvenisse, venivano alla luce testimonianze e addirittura vestigia dell’antico e glorioso passato. Le attività di scavo, per fini edificatori e infrastrutturali interessavano davvero ogni lembo della città; per esempio,laddove doveva essere realizzato un collettore, nella zona nord di espansione industriale, venne alla luce addirittura un secondo tempio dedicato ad Atena liberatrice, la cui esistenza, però, era già abbondantemente nota ai tombaroli. La terra e persino il mare sembravano vomitare quanto avevano tenuto in grembo per circa 2500 anni.

Nel mare di Scifo, cioè di quel lembo di paradiso ferocemente stuprato con “eiaculazioni” di cemento negli anni scorsi e ancora non depurato dalle tracce di quell’assurda violenza, nel 1983 scoprirono i resti di una nave romana, ivi naufragata con un carico di marmi e colonne. Ma è ancora prima, cioè intorno al 1975, che le preesistenze archeologiche di Crotone divennero una caso nazionale; nel senso ortodosso del termine, poiché le intense attività di scambio tra i tombaroli locali ed i collezionisti internazionali di reperti, musei compresi, invece andavano avanti da decenni. L’archeologia, come motore di sviluppo della realtà economica crotonese, in grado di sopperire alle dismissioni industriali che sarebbero venute da lì a breve, prese corpo dinanzi a un pentimento in corso d’opera inerente il raddoppio degli stabilimenti Montedison. L’area individuata per tale ampliamento si scoprì essere nientemeno che il quartiere settentrionale della antica città fondata dai greci. Non si poteva dunque realizzare un insediamento industriale su un’area di cotanto interesse storico- archeologico e dunque furono chiamati gli esperti per pronunciarsi in merito.

Il prof. Lorenzo Quilici, relatore delle indagini svolte dalla Fondazione Lerici sull’area Montedison, concluse che effettivamente quei luoghi erano stati il sito di un grosso e popoloso quartiere, le cui evidenze più interessanti erano costituite da un tracciato stradale classico delle città greche, alquanto raro in ragione delle sua integrità. Ma nulla di più; ovvero niente statue, templi, ville, edifici pubblici e quant’altro popola l’immaginario collettivo in materia di grandi scoperte di un glorioso passato. I terreni interessati andavano espropriati e il ministro per i Beni culturali dell’epoca, Mario Pedini, stanziò 650 milioni di lire per indennizzare i proprietari, poiché non era più possibile restituire una porzione del territorio dichiarato oramai di pubblica utilità. Nacque così l’idea del parco archeologico della cosiddetta “Antica Kroton” laddove 900 giovani disoccupati sarebbero stati dirottati per lavorare, una volta tramontato il sogno industriale del raddoppio Montedison. Ma ci volevano “i piccioli” e tanti, soprattutto per il mantenimento di quel parco una volta che sarebbe stato scavato e reso fruibile.

Sicché Roberto Spadea disse chiaramente e pubblicamente come stavano le cose: “Non si tratta soltanto di reperire i fondi per gli scavi, ma ci vogliono soprattutto quelli per la loro conservazione e la custodia”. In quello stesso anno (1980) ed a stretto giro di stampa, il nuovo ministro per i Beni culturali, Oddo Biasini, fu categorico in merito alla realizzazione del parco archeologico sull’area adiacente la Montedison: "Non esistono ostacoli insormontabili alla nascita del parco”. E dopo circa quaranta anni di attese; dopo altrettanti di annunci, dicono che per riportare alla luce l’Antica Kroton ci sono già nel portafoglio del comune di Crotone, 60 milioni di euro; pronti per essere spesi. Al di là delle attese e dei ritardi, delle speranze e delle disillusioni, effettivamente l’archeologia sembrava essere un abito su misura per la città; una livrea storica,monumentale e ambientale che avrebbe fatto distinguere nel mondo la rediviva colonia achea fondata nel 710 a.C. facendo affluire i classici “più turisti che sazizzi”. Così avrebbe dovuto essere e forse poteva essere e comunque sarebbe stato già un grande risultato rendere consapevole delle proprie inestimabili ricchezze l’intera popolazione, divulgando e informando la cittadinanza, attraverso la stampa e la televisione, in merito anche al più insignificante ritrovamento. Con questo spirito mi accinsi a occuparmi di archeologia, ma nella forma di racconto e di raccolta di testimonianze senza mai attardarmi in tecnicismi che non mi competevano, proprio per rendere più profondo e accessibile a chiunque il valore di quell’idea di sviluppo basato sulle preesistenze archeologiche della città. E di insignificante nei ritrovamenti di reperti e siti nell’intera area urbana ed extraurbana di Crotone, non c’è mai stato niente, laddove si pensi a quanto fu rivenuto nel 1987 nel perimetro del santuario di Hera Lacinia a Capocolonna; ovvero il cosiddetto “Tesoro di Hera” il cui pezzo più pregiato è il “Diadema” . Questa è storia; artefici di quella sensazionale scoperta sul Lacinio furono Elena Lattanzi; Roberto Spadea ed i ragazzi dell’Ufficio Scavi (quello poi trasferito in provincia di Catanzaro).

Tutto bello, magnifico, un grande sogno a occhi aperti, ma per quanto riguarda l’archeologia a Crotone è come se il presente temesse il passato come la peste e ne avesse terrore di essere ostacolato nel suo cammino; una cammino verso il futuro fatto di cemento e calcestruzzo e niente altro. La presenza della Soprintendenza archeologica era vissuta come una satrapia ed i satrapi erano Lattanzi e Spadea; e mi ci volle del tempo per capire che non era cosi che stavano le cose, che era ingiusto, da parte del comune di Crotone, boicottare, nel 1992, la presentazione del libro “Omaggio a Crotone” dedicato ai sensazionali rinvenimenti di Capocolonna.

E questo solo perché quel libro era stato realizzato da Eni, dal “Cane a sei zampe” qui odiato per via delle dismissioni industriali, ma altrove ritenuto l’amico fedele dell’uomo a quattro ruote. C’era grande lungimiranza e competenza nei due funzionari dello Stato che operavano a Crotone in ambito di Beni culturali, ma anche una sorta di saggia diffidenza nei confronti di coloro che avrebbero dovuto accollarsi l’onere di completare la funzione istituzionale dei beni culturali di una nazione, che consiste nella loro valorizzazione per trarne le anelate ricadute economiche di cui si favoleggiava ai tempi in cui doveva sorgere il parco archeologico dell’Antica Kroton. Arricchimenti, fortune, rapide carriere e ascese sociali ne ha comportato senz’altro l’archeologia a Crotone, per pochi però e tra questi non vanno annoverati soltanto i tombaroli; si va dai palazzinari ai politici.

E’ ridicolo, è misera cosa che quando la città ha perso gli occhi si pianga perché non ha più le ciglia che tradotto in dialetto suona così “ha perduto gli occhi è và cercando i pinnulari”. Gli occhi potevano essere il Parco archeologico nazionale di Capo Colonna (che ha più recinti di un campo di sterminio); l’area archeologica di Vigna Nova vicina all’ex Ciapi, cioè a una struttura che pur non essendo adiacente le ex fabbriche è considerata radioattiva quanto la centrale di Chernobyl. E poi c’è un lungo elenco dove giacciono per sempre “occhi” sepolti: Area archeologica di via XXV aprile; Area archeologica centro direzionale banca BPER; Area archeologica sede I. N.P.S; Area archeologica di Gravina-Pignera ; Area archeologica di Acquabona Area archeologica padiglione Microcitemia Ospedale Civile ; Area archeologica di via B. Telesio. Sepolture di cemento; persino il palazzo comunale e l’intero ospedale sono stati costruiti su preesistenze archeologiche ed è abbastanza normale non potere demolire quasi tutta la città.

Ma è ancora più ridicolo; cosa ancora più misera pretendere di far pagare il conto di tutta questa mala gestione plurisecolare del territorio a uno rettangolo di gioco che esiste da quando le forze alleate lo ricavarono in una zona sterrata e che oggi, forse per il terzo anno consecutivo, ospiterà un campionato di Serie A. Se per Crotone è così importante il suo glorioso passato, allora di questo fa parte anche la “Maledizione di Pitagora” laddove era stato malaugurato che i crotoniati si sarebbero cacciato un occhio purchè il vicino fosse divenuto cieco per intervento delle divinità. Così stanno le cose e così resteranno, che abbattano oppure no le tribune dello stadio “E.Scida”; che l’ex area Montedison valga o meno quei 60 milioni di investimenti previsti e che pare sia una ristrettissima cerchia a indirizzarli e gestirli, forse nella consapevolezza che in quella zona non si ritroverà null’altro che un tracciato stradale, neppure lastricato ed i soliti “mozziconi” di case antiche, che tanto assomigliano a cordoli di marciapiede. Non è un mistero che la Crotone achea, per quanto estesa potesse essere, non fosse tutta lastricata di edifici sacri, ville gentilizie, templi, mirabolanti architetture.

Oltre l’Esaro non poteva che esserci un abitato di gente che lavorava i campi e pascolava le greggi; al di qua, forse, gli artigiani se la passavano meglio e potevano permettersi dimore più dignitose e disporre di opifici di notevole estensione e fattezze. Persino il tempio dedicato a Hera sulla riva nord dell’Esaro, sulla linea di terra dove è stata individuata l’Antica Kroton, si presentava pressoché spoglio e le stanze degli ex voto pullulavano di catene arrugginite e spezzate a colpi di maglio, anziché luccicare di ori come l’Edificio “B” del tempio di Capocolonna. Al tempo in cui mi occupavo di archeologia riportandone puntualmente cronache di scoperte e avvenimenti sulla stampa locale e regionale, grazie a Elena Lattanzi e Roberto Spadea, ho avuto il privilegio di visitare molti dei siti che ho menzionato sin qui; pensavo che a qualcosa sarebbe servito sensibilizzare la gente sull’importanza del patrimonio archeologico crotonese, invece … Invece mi sono rassegnata all’idea che l’archeologia è un cappio al collo laddove non esiste un progetto d’insieme e non si riesce a fare rete tra i soggetti che dovrebbero cogliere questa opportunità pervenutaci gratuitamente attraverso due millenni e mezzo. La realtà è che c’è davvero troppo poco da vedere quaggiù e che le teche del Museo statale si sono riempite grazie all’ultima seria operazione di scavo condotta ai piedi della Colonna di Capocolonna, anche essa malinconicamente nascosta alla vista, resa inaccessibile anche essa con gli odiosi recinti di zinco.

Per contro è pur vero che i crotonesi andavano a mangiarsi l’anguria sul basamento di quello che fu un imponente santuario dedicato a Hera. L’altro museo, quello sul promontorio Lacinio, soffre in maniera eloquente l’inadeguatezza tra spazi espositivi e contenuti; tra aree e servizi annessi e incapacità di farli funzionare. La Crotone achea era sicuramente estesa, ma la bellezza e la sontuosità del luogo di approdo dei coloni greci, Capocolonna, appunto, non è stata replicata a valle del promontorio e dunque ci è pervenuta una città povera, quasi anonima, fatta eccezione per i quartieri ricchi; un po’ come può essere “Centocelle” rispetto alla Roma imperiale. Rimarrebbero le risorse paesaggistiche della città, ovvero il suo mare stupendo; i suoi palazzi baronali come quelli di Capocolonna;i casini di campagna come quelli insistenti sull’area ex Montedison a poter colmare il vuoto lasciato da un uso criminale del territorio perpetrato lungo il corso di almeno due secoli sino a oggi. Perché in nessuna parte del mondo non sarebbe stato possibile neppure immaginarlo di superare in altezza l’imponenza di un castello costruito sulla rocca della città con dei palazzoni di sette piani. Qui è accaduto. Che il riscatto culturale della Crotone moderna debba passare attraverso l’abbattimento di una tribuna dello stadio o l’utilizzo di Villa Berlingeri per ospitare un archivio di Stato è assurdo e paradossale almeno quanto lo è stato, e lo è ancora, il rapporto tra la città moderna e quella antica; tra l’archeologia e l’espansione urbanistica.

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