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Cosa chiedono le imprese italiane al governo per riuscire a sopravvivere?

In Italia esistono 6 milioni di imprese. Praticamente sono una ogni dieci abitanti e nel 97% dei casi si tratta di PMI, piccole e medie realtà. Ma, caso più unico che raro, nonostante queste rappresentino la stragrande maggioranza della forza produttiva e lavorativa della nazione, allo stesso tempo risultano molto poco ascoltate, soprattutto a causa di un pregio-difetto che le ha viste, negli ultimi sessant’anni, abituate a fare più che a chiedere. Il tutto a differenza dei pochi, grandi gruppi industriali che hanno potuto regolarmente socializzare perdite e problemi e, al contempo, privatizzare utili e profitti.

Per ogni euro prodotto gli imprenditori italiani tributano oggi al nostro Stato circa 55 centesimi e -come è noto a tutti gli addetti ai lavori- il nostro impegno a sostenere il paese con le tasse è tale da tradursi nell’immagine suggestiva di cittadini che, creando ricchezza, finiscono per impegnarsi nei primi sei mesi dell’anno a favore della nostra voracissima macchina nazionale, sottoforma di gettito fiscale. E solo nei successivi sei, incrociando le dita, ci si può impegnare a sostenere la propria famiglia, i propri sogni e progetti.

Sono costi incredibili e ancor più insostenibili se si pensa che alle suddette percentuali vanno aggiunti altri prelievi che fanno ottenere all’Italia il gradino più alto del podio nella triste graduatoria dei paesi con la pressione fiscale più alta. Basti ricordare che nel 2012 quella sulle imprese ha toccato la soglia del 68,5%, un valore difficile da digerire se si rivolge il pensiero ai disservizi che ancora e comunque lo Stato italiano non risparmia ai suoi sempre più poveri cittadini, che devono sobbarcarsi non solo l’enorme peso delle tasse cosiddette “in chiaro”, ma anche quello delle tasse “in grigio”. Queste ultime si consumano attraverso la burocrazia e la giustizia più lente dell’occidente, il mancato pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, il circuito bancario meno dinamico d’Europa e, soprattutto, il tasso di mortalità delle imprese sempre più alto, che da inizio 2013 ha determinato la fine di circa 4000 aziende. Un dato che sembra inarrestabile e che miete continuamente vittime, purtroppo non solo tra le persone giuridiche.

Il fatto è che non ci si può più esimere dal richiedere al Governo misure immediate e serie che vadano nella direzione di eliminare almeno quelle tasse occulte generate da tempi di attesa inconcepibili, mancato accesso al credito, corsi obbligatori che molto spesso si trasformano in mere certificazioni, scartoffie disperse negli archivi, documenti dei quali non si comprende la reale importanza ma che risultano comunque necessari a estinguere una pratica, per quanto ipocriti e testimoni della sola farraginosità di burocrati sempre più alieni rispetto alle reali e terribili condizioni di mercato che la crisi ci impone. Si badi bene, non dirò mai e non voglio lasciare intendere che per andare avanti si debba rinunciare alla sicurezza sui luoghi del lavoro o alla qualificazione sempre più necessaria del personale e delle nostre aziende, ma allo stesso modo occorre assolutamente ritornare con i piedi per terra. Faccio un esempio: non si possono sempre chiedere agli imprenditori solo sacrifici mentre Enti come Comuni, Asl, Province e tutta una serie di intermediari territoriali e politici fanno sì che i tempi di avvio di nuove attività diventino imbarazzanti, superando spesso i due anni, e solo perché il nostro paese ha costruito, sulla base della malafede a prescindere, regolamenti e leggi che impediscono a chi invece è in buona fede (e siamo la stragrande maggioranza) di scommettere su noi stessi e sulle nostre idee e capacità.

Un paese veramente civile dovrebbe stabilire obblighi diversi, come quello ad esempio di rispettare le normative soprattutto dopo l’inizio delle attività, giorno dopo giorno con il lavoro quotidiano. E invece ci si concentra sulle procedure ante apertura, su carte e documenti che frenano e ostacolano le buone intenzioni. Al Pubblico bisognerebbe consegnare un unico, vero obbligo, che affermerebbe la massima dignità di un’amministrazione: governare il territorio senza mortificarlo, essere amico e non nemico di chi si pone l’obiettivo personale e sociale di creare ricchezza per sé e per gli altri.

Rendo meglio l’idea estendendo il contesto di riferimento. In altri luoghi di Europa o d’oltreoceano, da sempre maggiormente dinamici nell’economia, le imprese si costruiscono sul presupposto che gli uomini e le donne che vi investono rispetteranno leggi e regolamenti a prescindere. In questo modo risulta di vitale importanza, per lo stesso tessuto sociale ed economico, consentire alle loro iniziative di impresa la più rapida e celere partenza, eliminando quei pareri preventivi che, come accade in Italia, risultano terribilmente lunghi da ottenere, causa incompetenze e clientelismo. Sia ben chiaro, all’estero si va più veloci, ma senza rinnegare la consapevolezza collettiva per la quale se si cerca di fregare o di aggirare quelli che sono i propri doveri, lo Stato interverrà immediatamente sugli elementi negativi del mercato, stanandoli con sanzioni molto pesanti. In questo modo il Pubblico non socializza i problemi, ma li risolve direttamente, perché ad un’azione seria delle istituzioni corrispondono sempre una natalità e una sopravvivenza delle imprese di tutto rispetto.

La creazione di territori a “burocrazia zero”, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno maggiormente depresse sarebbe quindi un impulso formidabile alla creazione di imprese e alla diffusione di valori economici e sociali, che ridarebbero fiato al sistema produttivo e risposte concrete al sempre più crescente tasso di disoccupazione, in primis quello giovanile, che ormai tocca la cifra record del 42%, e va contrastato proprio sfruttando la forte propensione all’auto-imprenditorialità del meridione (la provincia di Napoli in tal senso è la seconda in Italia, nda).

Certo, di cose da fare ce ne sarebbero molte altre. Una vera riforma del lavoro, ad esempio, tagliata su misura per le PMI, che renda il lavoro più dinamico e maggiormente garantito per i giovani, magari puntando a diminuire il divario sociale tra la vecchia e la nuova generazione. Ci vorrebbe poi l’obbligo di regolarizzare i pagamenti della PA, che oggi deve circa 120 miliardi di euro alle imprese italiane. E occorrerebbe la garanzia che il sistema bancario reinvesta il denaro raccolto e quello ricevuto in prestito dalla BCE nelle famiglie e nelle piccole imprese, e non in mortiferi strumenti di fanta-finanza. Non sarebbe poi male una regolarizzazione dei tempi della giustizia civile, che consenta l’esercizio dei propri diritti e, parimenti, il rispetto dei propri doveri, commerciali e non.

Alla fine, quello che si chiede al governo non è altro che buonsenso, piccoli atti di fede doverosi nei confronti di un popolo che continua a dimostrare una dinamicità -non solo d’impresa- eccezionale ma sempre più mortificata da riti e liturgie burocratiche incomprensibili, che producono solo costi aggiuntivi e clientele, a scapito di un futuro produttivo che sarebbe ancora possibile creare e realizzare. Perché troppe volte in passato ci siamo accontentati dei “se”, diventati ormai la patente di guida di un paese perdente. Viceversa dovremmo prendere esempio dai tanti uomini e donne che, senza se e senza ma, vanno avanti con la propria attività e, sempre di più, finiscono per assumere le sembianze eroiche e drammatiche di chi -impavido- la vita la vuole affrontare nonostante tutto. Senza mollare.

 

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