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Con le privatizzazioni aumentano i rischi

Il termine di cui si discerne di più in questi giorni tra le aule del Parlamento è Privatizzazioni. Nata dai giornali più o meno liberal, e passata di mano e pensiero dei politici fino ad arrivare alla bocca del Ministro dell'Economia Giulio Tremonti, "privatizzazioni" è l'ultimo tantra dell'elìte politologa italiana. Fatto sta che la proposta di Tremonti di privatizzare quella parte d'Italia municipalizzata è finita in Parlamento - magari con convinzione, stavolta.

Nel nostro paese ci sono circa seimila municipalizzate - società a capitale misto pubblico-privato, ma molto più spesso SpA controllate interamente dallo Stato come ad esempio Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie, Cassa depositi e prestiti... - nei cui confronti i commentatori politici si soffermano quasi esclusivamente su quanto potrebbero far incassare allo Stato se le vendessimo, anziché portare il dibattito e l'analisi tecnico-economica sulle conseguenze potenziali che tale mossa porterebbe alla nostra instabile economia.

Innanzitutto c'è da valutare se la vendita è fattibile (nel senso che bisognerà trovare qualcuno con la volontà di acquistarle); poi, a ridosso di una possibile vendita, bisognerebbe valutare le conseguenze per il nostro paese di un massiccio piano di privatizzazioni come questo e garantirci le stesse entrate che portavano le società in vendita; in ultimo capire se la dismissione dell’impresa pubblica italiana riuscirà a smorzare o attenuare la pressione dei mercati sul nostro paese, e garantirci, se possibile, una veloce convergenza ai vincoli imposti dall’Unione europea.

L'idea di vendere gli asset societari è stata largamente redarguita dal direttore del Center of European Policy Studies Daniel Gros: è vero che la UE ha fortemente spinto gli Stati in profondo rosso - soprattutto la Grecia - a mettere sul mercato i propri capitali industriali perché ridurrebbero il debito pubblico, ma è altrettanto vero che la messa in vendita degli asset comporterebbe un introito una tamtum che nel futuro potrebbe ritorcersi contro per la mancanza di entrate derivate dagli utili che queste società portavano allo Stato sotto forma di dividendi. Un esempio per tutti: l'Eni ha distribuito allo Stato dividendi per oltre 1,2 miliardi di euro che si vanno a sommare agli oltre 11 miliardi ottenuti nel corso degli ultimi dieci anni.

Dunque la vendita in massa di società pubbliche non è da considerarsi la migliore delle operazioni - considerando anche il fatto che i guadagni della vendita pareggiano i mancati introiti nel corso degli anni - perché il debito pubblico col tempo potrebbe risentirne parecchio, proprio perché verranno a mancare quei profitti periodici e quindi il valore creditizio del nostro paese tenderà a diminuire.

Quest'operazione va anche considerata sotto un altro aspetto ben più grave. In una prossima crisi economica, con un nuovo rischio default, l'Italia non avrebbe nessun asset da compensare ai debiti da estinguere. Naturalmente è un ipotesi azzardata e quasi impensabile perché vorrebbe dire che l'attuale crisi non ha insegnato nulla. Con tutto ciò - a margine della classe politica che ci governa - non è da escludere a priori.

Per cui le privatizzazioni di massa porterebbero, secondo me, all'effetto opposto di quello sperato, generando un crollo del valore del credito col rischio reale di indebitamento oltre il limite col risultato che l'Italia non riuscirebbe a pagare l'aumento degli interessi per i titoli creditizi e andremmo in default in men che non si dica.

C'è da stare molto attenti alle operazioni da fare per dominare questa crisi, e non è solo con le privatizzazioni che si possono risolvere i nostri problemi.

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