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Come il clima ha favorito la diffusione della peste. Quali scenari futuri?

Le epidemie di peste di Secoli fa furono dovuti alle oscillazioni climatiche in Asia che, variando le popolazioni locali di roditori, indussero le pulci infette a cercare nuovi ospiti. Cambiamenti climatici che in questo periodo stanno comportando uno spostamento delle zone di epidemia e delle modalità di diffusione. 

di Federico Baglioni

La peste che colpì l’Europa tra il XIV e il XIX Secolo fu causata dalle oscillazioni climatiche nell’Asia centrale. Questo il risultato di uno studio pubblicato sul “Proceedings of the National Academy of Sciences” da un team di ricercatori delle Università di Oslo e Berna.

La peste è una malattia infettiva causata dal batterio Yersinia pestis, trasmessa attraverso i roditori da pulci infette. L’epidemia forse più nota fu la Peste Nera esplosa nel 1347, ma furono molti i focolai che si riaccesero fino addirittura al XIX Secolo e che portarono morte nel continente europeo.

Quale fu la causa di questi nuovi focolai? Finora si credeva che con l’arrivo della peste in Europa, il batterio si fosse stabilizzato nella fauna selvatica locale e nei roditori, come dei “serbatoi” di batteri che sarebbero sopravvissuti per secoli.

Per vederci più chiaro e capire quali fossero questi serbatoi, alcuni scienziati delle Università di Oslo e Berna hanno analizzato i dati disponibili di 7711 focolai di peste, cercando di metterli in relazione con i cambiamenti climatici di Europa e Asia. I dati meteo-climatici sono stati ottenuti dagli studi sugli accrescimenti annuali degli alberi (registrazioni dendrocronologiche).

I risultati sembrano convergere sul fatto che, a eccezione della zona del Mar Caspio, non si siano mai conservati dei serbatoi di batteri della peste in Europa (ad esempio nei roditori). Non solo: è stata invece trovata una correlazione con le variazioni climatiche in Asia.

I ricercatori si sono quindi chiesti se non potrebbe essere proprio questo il motivo della diffusione della peste nei Secoli successivi e la risposta sembra essere affermativa. Si tratterebbe infatti di periodiche reintroduzioni della malattia dall’Asia, a causa della variazione repentina delle popolazioni locali di roditori causate dai cambiamenti climatici. Questa teoria sarebbe confermata dal fatto che gli eventi climatici precedevano di circa 15 anni la comparsa di nuovi focolai in Europa.

Secondo i ricercatori i principali vettori di pulci infette con il bacillo della peste, come il grande gerbillo, lo scoiattolo delle steppe o la marmotta grigia, hanno subito più volte forte diminuzioni della propria popolazione con le fluttuazioni climatiche. Questo avrebbe comportato un aumento relativo di pulci infette e la ricerca di ospiti alternativi, come i cammelli. Proprio i cammelli, usati durante le lunghe traversate verso il Mediterraneo, sarebbero stati la causa dei nuovi focolai di peste fino a pochi secoli fa.

Questa notizia è di forte interesse anche alla luce di un nuovo studio, pubblicato da un team di ricercatori del Dipartimento per l’agricoltura degli Stati Uniti e dell’Università del Nebraska a Lincoln, pubblicato sul “Philosophical Transactions of the Royal Society B”.

In questa analisi si sostiene che molti parassiti, un tempo confinati in ristrette regioni del mondo, si stiano diffondendo con grande facilità in nuove aree a causa dei cambiamenti climatici. Un vero e proprio spostamento delle zone di pandemia di molte malattie infettive e uno scenario piuttosto preoccupante, visto che non saremmo preparati a focolai ed epidemie di queste malattie.

L’allarme nasce dalla scoperta che se è vero che batteri e animali a stretto contatto tra loro per lungo tempo risultano “adattati”, non è vero che questo protegga dall’infezione di nuovi ospiti. Sembra infatti che “salti” verso nuove specie avvengano più rapidamente di quanto si pensasse. Questo perché secondo alcuni studi molti parassiti che oggi sono a contatto con poche specie, ne hanno infettate molte di più in tempi lontani.

Dunque sembrerebbe che questi patogeni non abbiano perso la capacità di infettare nuovi ospiti. Non solo: non avendo sviluppato resistenze, questi nuovi ospiti sono anche più suscettibili alle infezioni. Uno scenario che Daniel R. Brooks, tra gli autori dello studio, ha commentato così: “Non ci sarà un’epidemia che spazzerà tutti dal pianeta, ma tante epidemie localizzate che metteranno sotto pressione i nostri sistemi sanitari”.

Quest’analisi, oltre a preoccupare gli esperti, deve far riflettere sulle strategie da mettere in atto per garantire la salute pubblica. Trattare i casi infetti di nuove malattie, ad esempio sviluppando farmaci e vaccini potrebbe non essere sufficiente. È necessario anche analizzare l’eventuale presenza di serbatoi animali dei patogeni e ricostruire la loro distribuzione geografica, com’è stato fatto a posteriori per la peste. In questo modo si potranno sviluppare strategie per ridurre il contatto con i serbatoi e quindi adottare misure più efficaci per limitare il rischio di infezioni. Un modo di operare che ha già portato alcuni successi, come per limitare l’incidenza della febbre gialla o della malaria.

@FedeBaglioni88

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia. 
Crediti immagine: NIAID, Flickr

Commenti all'articolo

  • Di GeriSteve (---.---.---.169) 13 marzo 2015 20:30

    Non conosco questo nuovo studio, che certamente aiuterà a chiarire epidemie preoccupanti.

    Quello che non chiarisce però è questo articolo e tanti altri molto confusi: ho letto tante, troppe volte di peste portata dai topi... invece non risulta che i topi fossero portatori di peste (mentre i ratti sì) , e si fa gran confusione anche a parlare di "roditori".

    Il batterio della peste nera è oggi -per fortuna- quasi inesistente, quindi non è facile stabilire quali animali potessero ammalarsene e trasmetterlo, forse i cammelli -che non sono roditori- ma certamente se ne ammalava l’uomo , che però non è un roditore !

    E’ ritenuto che il serbatoio principale della peste fosse il ratto europeo, detto "ratto nero"; quando la peste era troppo virulenta i ratti morivano e scarseggiavano, così le pulci, non trovando la loro preda preferita, si adattavano a pungere un altro ospite infettabile: l’uomo. A differenza del ratto europeo, il ratto norvegico (il ratto grigio, la "pantegana") invece è immune alla yersinia e neanche portatore: quei ratti sono entrambi "roditori", ma questa differenza è quella fondamentale.

    Nei secoli il ratto norvegico ha colonizzato tutta l’europa e il ratto nero è oggi quasi scomparso, per cui le pulci non succhiano più il loro sangue infetto e si ritiene che sia per questo che l’epidemia inglese di peste nera del ’600 è stata l’ultima.

    Oggi per "ratto" si intende ormai il ratto norvegico, animale certamente poco igienico, ma che ci ha salvato dalla peste, scacciando un altra specie di ratto, molto più pericoloso per noi.

    Per capire e divulgare queste conoscenze bisogna però usare un linguaggio chiaro: è sbagliatissimo chiamare i ratti "topi di fogna" ed è sbagliato scrivere genericamente di "roditori".

    Un altro elemento di confusione è stata la diffusione del libro "I promessi sposi": Manzoni giustamente condannava le paranoie collettive sugli untori, ma sbagliava credendo che la peste si diffondesse per contagio diretto da uomo a uomo. Era un ignorante, ma perchè allora era ancora molto ignorante la scienza medica. Quello che però non è proprio giustificabile è la diffusione di questo pregiudizio ancor oggi fra i lettori dei promessi sposi: è un ottimo esempio di diffusa incultura scientifica, soprattutto nell’ambito cosiddetto "umanista".

    Molti sostengono che durante le epidemie il batterio fosse mutato e che fosse in grado di produrre il contagio diretto con il ciclo: uomo - pulce - uomo. Essendo oggi quella particolare peste una malattia scomparsa non lo si può escludere, ma le argomentazioni a favore sono piuttosto penose: io ho sentito un dibattito in cui uno storico (ovviamente senza avere alcuna preparazione scientifica) sosteneva che il contagio diretto era provato dalla rapidità con cui, nella stessa casa, la peste si propagava da una persona all’altra. A quello storico non gli passava per la testa che le pulci infette avevessero punto quasi contemporaneamente tutti gli abitanti della casa e che la latenza della malattia avesse piccole oscillazioni individuali che non erano affatto "i tempi di contagio" fra un appestato e un altro coinquilino.

    GeriSteve

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