Cina, parola d’ordine, riciclare
Si chiama "circular economy" e oltre Muraglia è diventata legge, in vigore dal primo gennaio. Si tratta di riciclare per non sprecare, ma non solo. Aumentano i controlli e si punta a veicolare risorse verso le aziende a basso impatto aziendale.
Dal primo gennaio è entrata in vigore la legge sulla “circular economy” o, per meglio dire, la Xúnhuán Jīngjì Cùjìn Fǎ (”legge per promuovere l’economia circolare” 循环经济促进法), approvata l’estate scorsa.
Il governo si impegna a monitorare consumi ed emissioni delle aziende, a promuovere riciclo e risparmio energetico, a spostare risorse sulle imprese eco-friendly anche attraverso gli sgravi fiscali.
Le imprese, a loro volta, dovranno applicare tecnologie di risparmio idrico e convertirsi alle energie pulite (come gas naturale e biocarburanti) per produrre. Saranno inoltre tenute a riciclare i rifiuti del carbone, che è a tutt’oggi la maggiore risorsa energetica cinese.
Anche la popolazioni rurali e le relative amministrazioni saranno incoraggiate a riciclare paglia, rifiuti animali e prodotti di scarto dell’agricoltura, per produrre metano.
I nuovi edifici industriali ed amministrativi dovranno utilizzare materiali e fonti energetiche rinnovabili, come l’energia solare e quella geotermica.
In pratica, si tratta di utilizzare la leva finanziaria a gestione statale-centralizzata per spostare il baricentro dell’industria cinese verso le imprese a impatto zero.
“Economia circolare“, appunto, perché a ogni consumo - energetico, naturale, intellettuale - si tratta di fare corrispondere un equivalente input di risorse nel sistema. La parola chiave è “riciclo” e i toni echeggiano le grandi mobilitazioni di massa della storia cinese novecentesca.
E’ figlia della necessità - il dissesto ambientale che ha ampiamente superato i livelli di guardia - e della “società armoniosa“, la parola d’ordine che ispira il mandato di Hu Jintao.
L’entrata in vigore della legge - tanto più stupefacente perché capita in piena crisi economica globale, quando molte economie sembrano aver messo tra parentesi la svolta ambientalista a vantaggio delle produzioni tradizionali da rilanciare - pone due problemi.
Primo. La sua effettiva applicazione pare essere demandata alle autorità locali. E’ il solito problema che riguarda anche la legge sul lavoro: non è detto che ciò che si decide a Pechino venga attuato nella provincia remota, dove i maggiori imprenditori coincidono spesso con i leader politici.
Secondo. E’ possibile che molte imprese - quelle che hanno sguazzato grazie alla possibilità di produrre senza vincoli normativi e costi eccessivi - si trasferiscano altrove, riducendo il livello di investimenti oltre Muraglia.
Ci sono anche le opportunità: la Cina potrebbe essere il prossimo grande mercato per i settori innovativi legati all’ambiente. Si aprono possibilità per le industrie d’avanguardia di tutti i Paesi. Bisogna rischiare.
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