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Cina, ipotesi per l’anno del bue

Che 2009 si prospetta per la Cina, dal punto di vista economico? C’è chi pensa che vivrà una crisi ancora più acuta del mondo occidentale e chi invece confida nelle risorse peculiari del Dragone.

Che 2009 si prospetta per la Cina? Sarà colpita duramente o solo scalfita dalla crisi economica globale?

Il dibattito impazza e si vanno delineando due correnti di pensiero: da un lato chi pensa che la Cina soffrirà in misura anche maggiore dell’Occidente a causa del crollo dell’export e della sostanziale immaturità del mercato interno; dall’altro, chi sottolinea invece la robustezza dell’economia cinese grazie al basso livello del debito e alle peculiarità del rapporto tra domanda e offerta sulla scena domestica.

La prima scuola di pensiero è ben rappresentata, su Rge Monitor - il sito di Nouriel Roubini - da Edward Harrison, che a sua volta si interfaccia con Marshall Auerback - schierato con l’opposta fazione - su Credit Writedowns.

In sostanza, secondo Harris, la riduzione della domanda globale colpirà soprattutto il “Creditore Alpha” dell’economia mondiale, cioè il Paese con il surplus commerciale più elevato: la Cina.

Alla base del ragionamento, il fatto che gli Stati Uniti - il “Debitore Alpha” - possono riorganizzare il proprio sistema economico in tempi relativamente brevi, stimolando il risparmio e riducendo quindi il debito. La Cina invece non è in grado di sostituire il repentino calo dell’export con un boom del mercato interno uguale e contrario. Questo almeno finché il governo non metterà in pratica delle politiche sociali che favoriscano i redditi: pensioni, assistenza sanitaria e altri benefit. Ma per far questo ci vorranno decenni. Per cui la domanda interna, almeno nel breve-medio periodo, calerà.

Tra l’altro, il governo cinese sembra indirizzarsi verso la solita svalutazione dello yuan che può provocare reazioni protezionistiche nei mercati di sbocco delle merci cinesi, innescando - come fecero le tariffe americane negli anni Trenta - quella spirale verso il basso che riduce ulteriormente i consumi.

Auerback sostiene invece che in Cina l’andamento dell’offerta prescinde dalla domanda. Le piccole aziende producono a più non posso - incrementando nel tempo le proprie skills e i livelli di qualità - sperando di piazzare la merce sui mercati stranieri, che pagano parecchio. Se l’export non tira, poco male: le merci vengono rivendute sul mercato interno a prezzi stracciati, in una forma di deflazione che favorisce il consumatore cinese medio.

Perché questo funzioni, il lavoro è trattato come un costo fisso, generalmente molto basso. Ma i salari reali, di fatto, crescono grazie alle merci riversate sul mercato interno a prezzi irrisori. A questo va aggiunta la sostanziale assenza di debito dell’economia cinese, che la rende solida e può permettere anche forti interventi dall’alto per rilanciare consumi e investimenti.
Insomma, è come se anche le leggi (che si pretendono eterne e immutabili) dell’economia si piegassero a una qualche peculiarità della tradizione cinese.

Allora Harrison ripropone il proprio scetticismo aggiungendo alcune informazioni: i valori immobiliari e borsistici stanno calando decisamente anche oltre Muraglia. Questi due elementi, intaccando la ricchezza, lavorano contro la psicologia della spesa domestica.
Inoltre il sistema bancario è ancora fragile, è probabile che saltino fuori perdite finora occultate e non è quindi escluso che il credito - e quindi i consumi - sia destinato a ridursi.

In definitiva, il punto nodale è la crescita del mercato interno cinese: si lascerà travolgere dalla crisi globale o farà le veci delle mancate esportazioni, almeno in parte? E il lavoro, che cominciava a beneficiare delle nuove leggi che lo tutelano, potrà essere trattato ancora come un costo fisso?

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