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Chi cura lo psicologo?

Molti psicoterapeuti non lavorano, altri vedono scappare i loro pazienti. Perché?

L’Ordine Nazionale degli Psicologi, per voce del suo Presidente, ha informato che in Italia sono iscritti all’Ordine 90mila psicologi, un terzo di tutti gli psicologi europei. Grandissima parte di costoro è disoccupata o sottoccupata, ovviamente. Urge pertanto un severo numero chiuso della Facoltà di Psicologia per il bene dei laureati che potrebbero così formarsi meglio, e dei loro utenti. Tuttavia viene pure ricordato dall'Ordine che non esiste ancora lo Psicologo di Base accanto al Medico di Base, che non esiste lo Psicologo Scolastico. Ed è assente tale figura in tanti altri contesti (Ospedali, luoghi di lavoro, Università, associazioni e circoli sportivi, giovanili) e in tante condizioni esistenziali (sostegno alla popolazione anziana, agli adolescenti, alla genitorialità, al minore adottato e alla genitorialità adottiva, alla famiglia con handicap, al disoccupato, al licenziato dal lavoro, alle vittime di reato, alle vittime di ingiustizie, o in attesa di giustizia, ecc.). Immaginiamo quali benefici potrebbe dare in tali e ulteriori ambiti la presenza istituzionale dello Psicologo. Quanto risparmio deriverebbe alla spesa dei farmaci, per limitarci – ma non ci limitiamo qui – a un criterio di spesa. 

Ma voglio soffermarmi sulla figura dello psicoterapeuta, che diventa tale dopo 4 o 5 anni di specializzazione post-lauream, e che rivolge la propria professionalità alla cura del disturbo psichico (spesso conseguente a condizioni esistenziali presenti già nella precocissima età di chi lo subisce).

Di scuole di specializzazione in psicoterapia ne esistono in Italia centinaia (si è perso il conto), riconosciute come tali dal Ministero dell’Istruzione, con sedi sparse in tutta la penisola, e un numero infinito di docenti. Il problema conseguente sta nel numero (svariate migliaia) e nella qualità professionale degli specializzati che svolgono o vorrebbero svolgere attività di psicoterapia. Si parla pertanto, a fronte di così tanti psicoterapeuti, di difficoltà massima ad esercitare la professione per l’alta concorrenza. Si parla meno dei limiti tecnico-professionali, una volta intrapresa l’attività e acquisito il paziente, a curarlo effettivamente e a trattenerlo in terapia lungo tutta la durata necessaria al raggiungimento del suo stato di benessere, affinché egli proceda poi in autonomia. Tutt’al più, si imputano i drop-out, gli abbandoni, ai costi della psicoterapia.

In realtà, gli abbandoni derivano quasi sempre dai limiti del terapeuta, che ovviamente può sbagliare come tutti. Ma il quadro generale ci dice che quei limiti sono spesso limiti di fondo, che scaturiscono da percorsi formativi sui quali è il momento finalmente di soffermarsi.

La psicoterapia (che deriva il suo metodo dialogico dalla psicoanalisi) cura in primo luogo attraverso lo “strumento” rappresentato dalla relazione tra terapeuta e paziente, relazione sapientemente governata dal primo, che giunge a tale competenza unicamente quando ha elaborato un lungo e profondo “lavoro” su se stesso. E’ vero che che è necessaria pure una autentica predisposizione a dedicarsi a una tale professione, che include in sé aspetti prima di tutto umani, secondariamente culturali e tecnici. Egli deve divenire capace di una profonda, partecipe immedesimazione, di un’altrettanto raffinata interrogazione di se stesso nel gioco della relazione tale da indurlo a riconoscere quel che non è detto e non è cosciente, nonché a saper modulare i suoi affetti nella relazione e, al momento in cui è necessario e possibile, a saper proporre le interpretazioni e favorire così il cambiamento. Lo psicoterapeuta, insomma,deve saper mettere un piede nelle sabbie mobili del paziente se vuole aiutarlo a tirarsi fuori. Deve mettersi in gioco, e non può mentire o fingere. Deve anche saper tenere l’altro piede sulla terra ferma, per non sprofondare anche lui e vanificare il tutto. Tutto ciò è possibile proprio grazie a quel preliminare “lavoro su di sé”, che è la propria analisi personale.

Lo stile di vita che ci siamo dati (o trovati) negli ultimi due secoli e, ancor più, negli ultimi decenni e negli ultimi anni si allontana progressivamente da quel modello che ha improntato la nostra esistenza per millenni e che si è inscritto nell’inconscio collettivo della specie umana. In particolare, si va perdendo l’abitudine a una vita comunitaria, dove lo stare con gli altri, occuparsi degli altri, condividere attività, emozioni, sentimenti, pensieri costituisce e fonda la vita stessa degli individui. L’uomo è un’animale sociale – si è sempre detto. È una creatura che può vivere solo se sta in relazione con gli altri, nella qual cosa consiste appunto il suo star bene. Dopo la nascita, egli non può sopravvivere se non è accudito da un suo simile. E lo schema di quell’accudimento precoce, la sua qualità, il suo equilibrio tra protezione e autonomia, sempre in un clima di affetto, stabilirà per il futuro la fiducia fondamentale in sé e negli altri e determinerà il benessere del singolo come della comunità.

Il disturbo della psiche, o dell’anima, alla sua base è sempre disturbo della relazione interpersonale, anche se declinato nelle forme più diverse. Il bisogno inappagato di contatto, di comprensione, di affidamento, di gioco, di sentimento deriva da condizioni primarie in cui la spontaneità naturale del bambino ha dovuto fare i conti con condizioni (per lo più inconsapevoli) poste a lui dagli adulti di riferimento e capaci di effetti traumatizzanti. Ne derivano ansie, insicurezza, depressione, insonnia, isolamento, bulimia, anoressia, dipendenze, e tutta la serie delle cosiddette “malattie” della psiche.

Affrontare terapeuticamente tutto ciò non è possibile se gli strumenti del curante derivano unicamente da uno studio intellettuale. Potenziare il proprio intelletto quando il proprio mondo inconscio, affettivo, emozionale mantiene gravi o meno gravi aree complessuali, non affrontate, non risolte, non è sufficiente né abilita la propria competenza di cura psicologica. Qual sia la situazione psicologica personale da cui si proviene, prendere contatto con le proprie dinamiche interiori e svilupparle è condizione imprescindibile per potere, non solo intendere, ma soprattutto curare le dinamiche patologiche dei pazienti e intraprendere con loro il processo trasformativo.

In altre parole è indispensabile per lo psicoterapeuta affrontare preliminarmente la propria analisi personale, che dovrebbe rappresentare anche a livello istituzionale condizione imprescindibile dell’iter formativo.

Commenti all'articolo

  • Di Angelo Libranti (---.---.---.43) 31 luglio 2014 13:34

    Sono d’accordo e aggiungo che tutti gli studenti di liceo, alla fine del loro percorso formativo e prima di iscriversi ad una facoltà universitaria, dovrebbero essere sottoposti ad analisi psicologica finalizzata a dare consigli utili sulla scelta professionale.

    Questi consigli eviterebbero o, almeno limiterebbero, comportamenti equivoci e non in linea con la professione scelta senza il parere degli esperti.

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